Cafone

Ignazio Silone, le parole

ca-fó-ne

Significato Contadino; persona rozza, villana

Etimologia etimo discusso, forse da cavare.

  • «Si è comportato da cafone, non lo chiamerò mai più.»

È una parola forte.
Quando succede di apostrofare o qualificare un comportamento o una persona che si distingue per maleducazione, rozzezza, e quindi quando capita di entrare nell’arcipelago del grossolano, dello zotico, del villano, paradossalmente ci ritroviamo in bocca soprattutto parole pettinate — magari un po’ troppo pettinate. Dare a una persona della ‘maleducata’, della ‘villana’, della ‘buzzurra’ ci dà l’impressione di una durezza composta, di un’ingiuria in guanto di velluto. Il cafone sfugge a questo destino, anche se certo non appartiene a una famiglia diversa.

Bifolchi, burini, villani sono gente del contado, che lavora i campi o sta dietro alle bestie — e tale è anche il cafone. È un termine dall’etimo dibattuto: c’è chi ha sostenuto una derivazione da cavare (in riferimento al lavoro della terra), ma c’è chi ha ipotizzato un’origine osca. Come il burino (tipicamente romanesco) anche il cafone può contare su una verve dialettale (del meridione), e questo è senz’altro un fattore rilevante, nell’impressione che fa.

Infatti, anche se il nesso con il contadino originario nella lingua nazionale si sfilaccia, è un termine che conserva un’intensa energia, e una ruvidità palpabile. Anzi è un termine che si può abbaiare tranquillamente (mentre abbaiare un ‘villano’ è un po’ affettato).


Io so bene che il nome di cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio: ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore.

Fontamara

La fama di Silone è legata soprattutto a questa parola, che lui certo contribuì a diffondere e che usava in un senso specifico, quasi tecnico: per definire cioè la fascia contadina più povera, protagonista dei suoi romanzi più celebri. Non era all’oscuro, tuttavia, del significato insultante che il nome aveva preso negli anni; al contrario, le sue opere costituiscono un vigoroso tentativo di risemantizzarlo, rovesciando la vergogna in orgoglio.

Certo c’è in questo una forte critica sociale, dettata da uno spontaneo senso di giustizia e nutrito dalla formazione socialista. Ma l’interesse di Silone non si ferma al piano sociologico: per lui i cafoni sono una specie di manuale antropologico, per capire come siamo fatti.

I cafoni infatti sono un’umanità ridotta all’osso, perciò sono come “quei casolari di aspetto dimesso che hanno delle grandi cantine” (Le idee che sostengo). Azzerata la superficie spumeggiante che di solito le nasconde, si mostrano le radici profonde dell’umano, in cui risiede la sua dignità autentica.

Il dolore è la prima di queste radici. I cafoni, con la vita misera che conducono, non possono ingannarsi sulla fragilità e sulla sofferenza intrinseche alla condizione umana. “Essi sanno di avere fame, che è l’essenziale”, scrive Silone in Uscita di sicurezza.

Questa consapevolezza, da un lato, li rende forti, capaci di accettare con dignitosa umiltà le contraddizioni della vita, senza quell’ansia di controllare e di spiegare tutto che così spesso ci domina. Dall’altro alimenta in loro un inquieto desiderio di riscatto, la sensazione che il mondo potrebbe e dovrebbe essere diverso, che porti in sé una promessa insoddisfatta.

Al contempo la vicinanza alla terra, da cui tutto dipende, insinua nei cafoni di Silone una tensione quasi inconsapevole verso la fratellanza, verso un senso di unione e di compassione universale. Un cafone sa di non bastare a se stesso, ma sa anche di non essere solo, perché al di là delle apparenze tutti sono accomunati dalla medesima condizione, e forse Dio stesso partecipa all’esistenza di tutti quanti, impastato nel loro stesso dolore.

D’altra parte nei cafoni si condensano con uguale evidenza anche i vizi umani. La tendenza, per esempio, a vivere con passiva rassegnazione, confinando la speranza nel regno del sogno e dell’astrazione. O il pericolo di rinchiudersi in una meschinità egoistica e crudele, incattivita dalla sofferenza. In loro dunque si fa palese la contraddizione propria della natura umana, in cui dolore e amore possono volta a volta alimentare una corrente di sapiente bontà, o pervertirsi in velenosi rigagnoli.

Parola pubblicata il 09 Aprile 2024

Ignazio Silone, le parole - con Lucia Masetti

Entriamo nell'opera di un autore, grande ma non altrettanto conosciuto, della nostra letteratura del secolo scorso: Ignazio Silone, a cui dedichiamo una settimana di pubblicazioni a tema.