Edonismo

Le parole e le cose

e-do-nì-smo

Significato Dottrina filosofica che identifica il bene col piacere; condotta basata sulla ricerca del piacere

Etimologia neologismo ottocentesco tratto dal greco hedoné ‘piacere’, da hedýs ‘dolce’.

Reaganiano. Se si digita ‘edonismo’ su Google, è questa la prima associazione suggerita: edonismo reaganiano, con riferimento a Ronald Reagan, presidente degli USA dal 1981 al 1989. Singolare ma nient’affatto casuale che quest’espressione – coniata giocosamente da Roberto D’Agostino per il programma TV Quelli della notte, nel 1985 – sia stata presa subito sul serio da filosofi e intellettuali italiani, che vi videro la sintesi perfetta dei già esecrati anni Ottanta: una miscela di liberismo economico, disimpegno politico, sfrenato individualismo, ripiegamento nel privato, esplosione delle tv commerciali, consumismo, frivolezza imperante, glorificazione del fatuo.

Ma a parte la cultura popolare e la critica sociale, qual è il significato filosofico del termine? Qualunque dizionario, alla voce ‘edonismo’, recita che si tratta di una dottrina che fa del piacere il bene supremo, il fine della vita umana, indicando come sinonimo di ‘edonista’ – oltre a gaudente, libertino e sibarita –, anzitutto ‘epicureo’. In effetti, l’epicureismo è generalmente annoverato tra i più fulgidi esempi di edonismo. Eppure, qualcosa non torna: Epicuro non era quello per cui «la ricchezza secondo natura è tutta compresa in pane, acqua e un riparo qualsiasi per il corpo»? Andiamo ad indagare.

Nato sull’isola di Samo nel 341 a. C. da coloni ateniesi, a trentacinque anni Epicuro, dopo una vita un po’ girovaga, si stabilì ad Atene, comprando una casa con annesso orto appena fuori città e aprendovi la sua ‘scuola’ (nota perciò come Giardino). In realtà, più che una scuola era una comunità filosofica aperta a chiunque, compresi donne e schiavi, in cui tutti erano considerati e trattati come amici.

Copia romana di un originale greco di un busto di Epicuro, qui rappresentato con l’espressione serena e amichevole che ci aspettavamo.

Per Epicuro, lo scopo della filosofia era essenzialmente terapeutico, consistendo nel liberare gli esseri umani dalle loro paure: gli dèi, la morte, l’infelicità e il dolore. Per scacciare ognuna di esse, Epicuro formulò il suo tetrafarmaco: temere gli dèi non ha senso perché essi, evidentemente, non si interessano dei casi umani, altrimenti – a meno di essere malvagi o impotenti, cosa impensabile – avrebbero eliminato il male dal mondo; la paura della morte e quella del dolore vengono parimenti liquidate con altrettanta semplicità: mentre siamo in vita, la morte non c’è, e quando arriva lei, non ci siamo noi; il dolore, invece, se è intenso dura poco, se dura molto si affievolisce col tempo.

Faccenda più complessa è la felicità. Epicuro afferma senza esitazioni che essa va identificata col piacere (quindi, tecnicamente, è un edonista); ma i piaceri, puntualizza, non sono tutti uguali: ci sono quelli naturali e necessari (come mangiare e bere quando si ha fame e sete), la cui mancata soddisfazione procura sofferenza; quelli naturali e non necessari, come mangiare cibi raffinati; e infine quelli non naturali né necessari, come il desiderio di gloria e onori. La saggezza consiste nel capire che solo i piaceri del primo tipo sono da perseguire: gli altri due, alla lunga, causano solo turbamento e sofferenza. Il piacere che rende felici altro non è che assenza di dolore fisico (aponìa) e di turbamento dell’anima (atarassìa); non un piacere attivo, dinamico, bensì catastematico (statico), all’insegna della tranquillità d’animo, della frugalità, dell’accontentarsi di ciò che si ha.

Sembra incredibile che cotali sobri principî e innocue aspirazioni siano valsi agli epicurei, attraverso i secoli, durissime critiche e paragoni coi porci. Va capito, però, che a risultare destabilizzante e pericoloso era ciò che ne costituiva la base: c’è un motivo se quella di Epicuro non era una vera scuola, come quelle platoniche e aristoteliche, ma un circolo di amici chiusi in un giardino, ai quali veniva predicato «vivi nascosto» e «liberiamoci, una buona volta, dal carcere delle occupazioni quotidiane e della politica». Quanto stonavano, questi precetti, con la morale tradizionale dei conquistatori Romani, fatta di virtù civili, senso del dovere, abnegazione, austerità! Equivalevano a una diserzione, una dichiarazione di egoismo, di indifferenza sociale e politica.

La felicità di Epicuro era quella del suo tempo, quell’età ellenistica convenzionalmente iniziata con la morte di Alessandro Magno, pochi anni dopo la nascita del Nostro: non più la felicità collettiva del libero e partecipe cittadino della polis, bensì quella privata – da idiota in senso etimologico – del suddito dei regni assoluti ellenistici, che elevava a virtù il distacco forzato da una realtà sulla quale era diventato impossibile incidere. E allora, vada pure in malora il mondo: un giardino, alcuni amici e qualche piccolo piacere ogni tanto sono più che sufficienti per la felicità. Sarà un caso che oggi, benché gli anni Ottanta siano morti e sepolti, Epicuro ci appaia ancora attualissimo?

Parola pubblicata il 08 Febbraio 2022

Le parole e le cose - con Salvatore Congiu

I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.