Catoblepismo

ca-to-ble-pì-smo

Significato Rapporto patologico in cui due entità dipendono l’una dall’altra per la propria sopravvivenza; in particolare, situazione economica patologica, propria dell’Italia dei primi anni ‘30, in cui gli istituti di credito finanziavano industrie che diventavano dipendenti da quel credito, e da cui gli istituti divenivano dipendenti in quanto fulcro dei loro investimenti

Etimologia neologismo coniato nel 1962 dall’economista Raffaele Mattioli, traendolo da catoblepa nome di un mitico quadrupede africano la cui testa sarebbe stata così pesante da imporgli di guardare sempre in basso: questo nome deriva dal greco: katablepo guardare in basso.

Fino a pochi giorni fa si trattava quasi di un’hapax legomenon, cioè di un’espressione che nella nostra lingua era stata usata una singola volta - nel ‘62, da Mattioli, quando la inventò. Non si può dire che si tratti di un’espressione calzante: l’immagine del catoblepa si dovrebbe in qualche modo legare a quella (secondo il discorso di Mattioli sull’economia italiana dei primi anni ‘30) di un istituto di credito e di un’industria che dipendono l’uno dall’altra per la propria sopravvivenza, escludendo ogni investimento al di fuori di questo chimerico sodalizio. Ma il nesso non si vede proprio.

In questi giorni, comunque, l’uso di questa strana parola da parte del ministro Barca l’ha portata alla ribalta. L’ha usata per indicare un assetto istituzionale in cui i partiti gestiscono lo Stato da cui dipende la loro stessa esistenza, escludendo i cittadini da questo circuito. Il fenomeno pare strutturalmente ben paragonabile a quello descritto da Mattioli; ciononostante continua a non avere alcun nesso col povero catoblepa: è vero, magari si guarda l’ombelico, ma il catoblepa resta alieno al catoblepismo - che invece sia Mattioli sia Barca ribadiscono sia simile ad una “fratellanza siamese”.

Senza dubbio il concetto è bello ed importante: si può comunque rilevare come si tratti di una semplice deformazione di una simbiosi, per cui forse non serve una parola ad hoc. L’insussistenza etimologica di questa parola, inoltre, la rende particolarmente insulsa. Nei bestiari classici e medievali di mostri ce ne sono tanti: perché puntare proprio sul catoblepa, che se ne sta a ruminare le sue erbe velenose nelle savane dell’Africa, uccidendo con lo sguardo e pietrificando col fiato e che non c’entra nulla con circuiti involti su se stessi? Dopotutto ciascun mostro ha le sue caratteristiche, e non può essere tirato in ballo a caso. Sarebbe forse calzato meglio l’uroboro, il drago che si mangia la coda. Uroborismo suona anche meglio.

Il qui pro quo è dovuto probabilmente al romanzo “La tentazione di Sant’Antonio” di Flaubert. In questo romanzo il catoblepa è descritto minuziosamente, e ha un dialogo fantastico con Sant’Antonio; nel presentarsi in maniera iperbolica, il catoblepa, oltre a fare riferimento alla testa pesante, alle erbe velenose che mangia e allo sguardo che uccide, dice: “Una volta, mi sono divorato le zampe senza accorgermene”. Il tono è ovviamente scherzoso: il catoblepa di Flaubert ha il capo così fitto a terra da non vedere nemmeno quel che mangia, tanto da finire per mangiarsi le zampe. E forse è a questa immagine che si riferiva Mattioli nel coniare “catoblepismo”. Si tratta comunque di un’iperbole che non può essere intesa come caratterizzante del catoblepa: per quanto Flaubert, scherzando, abbia dipinto un catoblepa che si mangia le zampe, in generale questo non rientra nel profilo di questa figura.

Segnaliamo anche che un tassello ulteriore del qui pro quo è l’uso che André Gide ha fatto della figura di Flaubert: nel 1950, durante una conferenza in Italia, ebbe modo di parlare dell’esperienza della guerra, finita da poco, dipingendo in particolare la guerra fra Francia e Italia come una guerra fratricida, anzi, come una guerra in cui la cultura che Francia e Italia condividono ha divorato sé stessa, al modo del catoblepa di Flaubert. È facile pensare che Mattioli, giusto una decina d’anni dopo, abbia reintrecciato un discorso sulla fratellanza siamese e sul mangiare sé medesimi al modo di catoblepa in proposito delle banche che comprano quote di sé stesse sotto la suggestione di Gide. Questa osservazione è proposta da Giorgio La Malfa in un suo articolo del 2001.

Comunque vi sveliamo un segreto. Il catoblepa è lo gnu. Chissà come è successo che a Plinio il Vecchio gli hanno raccontato che aveva un capoccione gigante e che uccideva con lo sguardo…

Nota musicale: Elio e le Storie Tese usano “catoblepa” nella loro canzone “Supergiovane” come nome di un personaggio perché avevano bisogno di qualcosa che rimasse con “Tepa”, una vecchia marca di scarpe.

Parola pubblicata il 14 Aprile 2013