Etica

Le parole e le cose

è-ti-ca

Significato Parte della filosofia che studia la condotta morale dell’uomo e i criteri del suo giudizio; insieme delle norme di condotta pubbliche e private

Etimologia voce dotta recuperata dal latino ethica, prestito dal greco ethiké ‘relativo al carattere’.

Nell'imbattersi in questa parola, a molti viene spontaneo pensare: «Eh, l'etica… una parola obsoleta, ormai!». E non è una reazione tipicamente moderna: ogni civiltà ha avvertito – e stigmatizzato – una certa decadenza morale rispetto ad un passato più o meno idealizzato. Eppure, a ben vedere, oggigiorno la sensibilità per le questioni etiche è più viva che mai. Basti pensare alla presenza massiccia, nel dibattito pubblico, di questioni come eutanasia, diritti degli animali, corruzione politica, ingiustizie sociali, parità di genere, rispetto per l'ambiente e altre ancora, alcune delle quali in passato neppure si ponevano, mentre oggi suscitano discussioni anche infuocate. Per non parlare di quanto spesso, ultimamente, sentiamo giocatori e allenatori indicare la radice di una vittoria sportiva nella propria ferrea etica del lavoro.

Ma etica e morale sono la stessa cosa? Etimologicamente sì: il latino moralis (derivato da mos, moris 'costume, carattere') ricalca l'analogo greco ethikós. Anche in filosofia, generalmente, le due si equivalgono, con qualche eccezione tra cui Hegel, per il quale la morale aveva natura soggettiva, individuale, mentre l'etica si manifestava oggettivamente, incarnandosi a livello sociale e istituzionale. È interessante come questa distinzione traspaia anche nell'uso quotidiano: posso parlare indifferentemente della mia etica o della mia morale, ma non definirei mai Tizio 'vincitore etico' di una gara, né direi di aver ricevuto uno 'schiaffo etico'; e parlare di 'obbligo etico' riguardo a qualcosa darebbe l'impressione, rispetto al consueto 'obbligo morale', di un'imposizione sociale più che di un'esigenza interiore.

L'etica, probabilmente, è vecchia quanto l'umanità. A lungo, tuttavia, le norme di comportamento attennero alla sfera religiosa, prendendo la forma di sentenze da introiettare senza discutere. Tutto cambiò con i sofisti, che affermarono il carattere convenzionale di qualsiasi valore o norma umana. Rifiutando il relativismo sofistico, invece, Platone addirittura imperniò l'ontologia sull'etica: le idee sono il fondamento della realtà, ma l'idea suprema è quella del Bene, che sta quindi alla base di ogni cosa. Chi però ha sistematizzato l'etica come disciplina specifica è Aristotele, che qui vediamo in una copia romana di un busto attribuito al grande scultore Lisippo.

Egli riporta il Bene di Platone sulla terra, lo rende pratico e soprattutto molteplice: il bene è ciò a cui tutto e tutti tendono, certo; ma ognuno ha il suo bene, diverso da quello altrui. Poi, per tutti il bene supremo coincide naturalmente con la felicità (eudaimonìa). Ma cos'è la felicità?

Nell'Etica Nicomachea, Aristotele scrive che «il bene umano consiste in un'attività dell'anima secondo virtù». Il termine greco da lui usato, areté, significa essenzialmente valore, pregio, eccellenza. Anche cose e animali, quindi, possiedono le loro virtù (quella del rasoio è il tagliare, quella del cavallo il correre); ma Aristotele si riferisce specificamente alle virtù umane, distinguendo quelle dianoetiche (razionali, intellettive) dalle virtù etiche (ossia pratiche, relative ad affetti e passioni). Queste ultime – tra cui il coraggio, la temperanza, la sincerità e l'equità – sono come un abito, una disposizione del carattere che si acquista con l'esercizio, e consistono nel dominare gl'impulsi sensibili secondo il criterio del giusto mezzo.

Qui, però, sgombriamo subito il campo da un equivoco: la medietà di cui parla Aristotele non ha nulla a che vedere con la mediocrità nel senso odierno – con un tiepido e trepido 'non sbilanciarsi'. Subito dopo aver definito la virtù «una medietà tra due vizi», infatti, Aristotele aggiunge che essa «secondo l'eccellenza e la perfezione è un estremo». La perfezione di ciò che chiamiamo 'coraggio' non consiste, astrattamente, nel rischiare 'né troppo né poco': a volte, è indispensabile rischiare tutto; così come l'equità, talora, richiede di dare tutto a qualcuno e niente a qualcun altro. Inoltre, Aristotele precisa che questa medietà in cui consiste la virtù è «il mezzo non dell'oggetto, ma in rapporto a noi». Il mio giusto mezzo, insomma, non è necessariamente il tuo.

Ma le virtù più perfette, secondo Aristotele, sono quelle dell'anima razionale, in cui consiste la nostra umanità: in particolare la saggezza (phrònesis), che si dispiega nella vita individuale e politica (essendo l'umano un «animale sociale», etica e politica sono strettamente legate), e la sapienza (sophìa). Mentre la prima è alla portata anche della gente comune, la sophìa è appannaggio del filosofo, che dedica la propria esistenza al sapere. È questa, per Aristotele, la vita più nobile e felice per un essere umano: una vita dedita alla ricerca teoretica a livello di eccellenza, che rende i mortali simili agli dèi. Un ideale allettante e senza tempo, che riecheggia nell'accorato appello dell’Ulisse dantesco: «fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza».

Parola pubblicata il 18 Gennaio 2022

Le parole e le cose - con Salvatore Congiu

I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.