Falsi amici inglesi che ce la stanno facendo
Lo stato dell’arte sugli equilibri fra italiano e inglese: che cosa c’è che funziona e ci arricchisce? E che cosa invece ci ingolfa come un pasto non digerito?
C’erano una volta i barbarismi. Così – con imperiale albagia – erano chiamati in passato i vocaboli stranieri che osavano contaminare la purezza del ‘nostro bell'italiano’. Nella seconda metà dell’Ottocento, conclusasi la stagione del purismo in senso stretto, si iniziò ad usare il più neutro forestierismi, ma la sostanza cambiò solo fino a un certo punto: ogni parola di provenienza straniera – allora si trattava perlopiù di francesismi – veniva accolta con minore o maggiore fastidio da una parte della comunità dei dotti. In epoca fascista, poi, la strenua difesa della lingua nazionale dalle spinte disgregatrici, tanto interne (i dialetti) quanto esterne, non era che il logico portato culturale del nazionalismo e del centralismo politico.
È in quegli anni che Paolo Monelli pubblicò sulla Gazzetta del Popolo la rubrica “Una parola al giorno” (!), nella quale censurava quotidianamente un forestierismo, proponendone la sostituzione con un termine autoctono. Ed è anche per reazione allo sciovinismo linguistico fascista, probabilmente, che nel secondo dopoguerra, in Italia, per molto tempo non si sono manifestate particolari resistenze ai forestierismi da parte degli addetti ai lavori.
Ancora nel 1987, al grido d’allarme di Arrigo Castellani sul ‘morbus anglicus’ da cui l’italiano sarebbe stato affetto, la risposta quasi unanime fu che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che l’italiano era saldo e l’influenza dell’inglese tutto sommato modesta. Nel ‘94, quando in Francia fu approvata la legge Toubon – che stabiliva l’obbligo di usare la lingua francese in ambito istituzionale e in certi contesti commerciali – il giudizio fu pressoché unanime: una “legge del Toubon” (De Mauro), uno scherzo, un’assurdità.
Non morbo ma tsunami
Negli ultimi anni, però, di fronte a un’alluvione di anglicismi sempre più massiccia, diversi linguisti sono stati costretti a cambiare almeno in parte idea: è del 2016 l’articolo in cui De Mauro, riecheggiando Castellani, parlava di “tsunami anglicus”; l’anno precedente, Luca Serianni aveva definito “un po' invadente” la quantità di anglicismi nella nostra lingua, e l’esperta di comunicazione Annamaria Testa aveva lanciato una petizione, Dillo in italiano, per “invitare il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese a parlare un po’ di più, per favore, in italiano”, chiedendo all’Accademia della Crusca di farsi portavoce e testimone dell’iniziativa. La risposta non si fece attendere: pochi mesi dopo, l’Accademia creò al suo interno il gruppo Incipit, con lo scopo di “monitorare i neologismi e forestierismi incipienti, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede”, suggerendo ogni volta un’alternativa autoctona.
I prestiti di lusso
Quando è troppo è troppo, insomma. Dopotutto, persino l’illuminista Alessandro Verri, nella sua Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca, scriveva sì che “se dall'inda o dall'americana lingua ci si fornisse qualche vocabolo ch'esprimesse un'idea nostra meglio che colla lingua italiana, noi lo adopereremo”, ma aggiungeva anche: “sempre però con quel giudizio che non muta a capriccio la lingua, ma l'arricchisce e la fa migliore”.
Ora, è evidente che dire e scrivere, come oggi avviene sempre più spesso, contest, food, store, austerity, mission, target, competitor, green, deadline – e potremmo continuare ancora a lungo – al posto di, rispettivamente, gara, cibo, negozio, austerità, missione, obiettivo, concorrente, verde, scadenza, non ‘arricchisce’ né ‘fa migliore’, in alcun modo, la lingua italiana. Nonostante l’attivismo della Crusca e di altri volenterosi, peraltro, è innegabile che in questi ultimi anni lo tsunami – lungi dallo scemare – pare semmai guadagnare ogni giorno in intensità, e il numero dei “prestiti di lusso” (cioè superflui, non motivati dalla necessità di dare un nome a qualcosa che ancora non lo ha) aumenta a un ritmo sempre più veloce. Si rafforza e dilaga, insomma, quello che già alla fine degli anni Settanta è stato definito itangliano o itanglese, cioè un italiano sempre più pesantemente condizionato dall’inglese.
Le parole come pagnotte: come si prendono prestiti e si fanno calchi
Ma l’influenza di una lingua straniera, naturalmente, non si limita al prestito diretto di parole. Vi sono forme di penetrazione più sottili e discrete, talora difficilmente rilevabili: i calchi linguistici. Per spiegare la differenza tra prestiti e calchi – e le diverse tipologie degli uni e degli altri – ricorreremo ad una similitudine panificatoria. Nel caso di un prestito integrale, cioè non adattato foneticamente e morfologicamente all’italiano (mouse, business, killer, flop, show e migliaia di altri), invece di farci da noi il pane importiamo le pagnotte dall’estero e le mangiamo così come sono; quando si tratta di un prestito adattato (per esempio, ‘bistecca’ da beef-steak, ‘toeletta’ da toilette, ‘giungla’ da jungle), importiamo la farina dall’estero ma impastiamo, foggiamo e inforniamo le pagnotte all’italiana.
Nei calchi linguistici, invece, la farina è rigorosamente del nostro sacco, ma possiamo panificare in due modi diversi. A volte, modelliamo le pagnotte copiando la foggia di quelle straniere (per esempio, sforniamo ‘grattacielo’ da sky-scraper, ‘pallacanestro’ da basketball, ‘fuorilegge’ da outlaw): in questi casi si parla di calchi strutturali o di traduzione. Altre volte, invece, nel caso dei calchi semantici, la farina e la pagnotta sono nostre, ma vi aggiungiamo un ingrediente forestiero (in genere, avena inglese): in tal modo, una parola che già esiste in italiano viene risemantizzata, cioè acquista un significato ulteriore, inesistente sino ad allora.
Il verbo realizzare, per esempio, ha assunto in italiano la sua accezione di ‘rendersi conto, capire’ dall’inglese to realize; fino all’inizio del Novecento, aperitivo significava ‘lassativo’ (apritivo, che apre) e prese l’attuale significato per influsso del francese apéritif (‘che apre’ nel senso di preparare lo stomaco al pasto); sofisticato, un tempo, significava solo ‘alterato, contraffatto’ (come, ancora oggi, si dice di certi vini) e derivò l’accezione di ‘estremamente raffinato, ricercato’ dall’inglese sophisticated; per molti secoli, la cimice è stata solo un insetto parassita, poi, per interferenza dell’inglese bug, ha preso anche il senso di ‘microspia’.
Copie metaforiche e falsi amici
Qualcuno avrà notato che l’ultimo esempio di calco semantico è diverso dai precedenti: l’inglese bug non ha alcuna somiglianza formale col corrispondente italiano cimice. Il calco, qui, consiste nel copiare l’uso metaforico della parola in inglese, così come è avvenuto con falco (hawk) nel senso di ‘politicamente intransigente’ e congelare (to freeze) nel senso di ‘sospendere temporaneamente’ un credito.
Nel caso di realizzare, aperitivo e sofisticato, invece, è chiaro che l’interferenza dell’inglese è dovuta al fatto che molte parole inglesi e italiane si assomigliano perché sono imparentate, hanno una radice comune. L’inglese, infatti, pur non essendo una lingua neolatina, contiene moltissimi latinismi (per via diretta o indiretta, specie attraverso il francese). Il motivo, poi, per cui questa parentela diventa ingannevole, disseminando il rapporto tra le lingue sorelle o cugine di falsi amici, di parenti serpenti, dipende dal fatto che la vicinanza linguistica comporta sempre anche una distanza – geografica, sociale, culturale (come diceva De Saussure, una lingua non è una nomenclatura, una lista di etichette intercambiabili).
Perciò accade non di rado che, per motivi più o meno perspicui, una parola di origine latina prenda, in una certa lingua, dei significati sorprendenti, in apparenza lontanissimi da quelli originari. Ed è questa mutazione semantica, naturalmente, a trasformare quella parola in un falso amico.
I falsi amici che diventano amici veri
L’aspetto più interessante della questione, però, è che spesso, a ben vedere, queste nuove accezioni sono del tutto coerenti; a volte, anzi, sono significati che nella nostra lingua si erano persi o erano obsoleti, rami secchi che l’interferenza forestiera fa rifiorire. Più d’una volta, insomma, i calchi sono solo apparenti, e amici che sembravano falsi si rivelano autentici: un tempo, d’altra parte, sophisticated, apéritif e realize erano falsi amici, oggi non più; essendo ormai registrati da tutti i vocabolari italiani, possono dire di avercela fatta (anche se taluni storcono ancora il naso su realizzare, ancorché attestato nel senso di ‘rendersi conto’ sin dalla fine degli anni Venti).
Tanti loro fratelli e sorelle, invece, lottano ancora per ottenere un riconoscimento – coloni fatti arditi dall’avere alle spalle una madrepatria strapotente. In questi ultimi anni, il numero dei calchi semantici in fieri, dei falsi amici che ce la stanno facendo, cioè che stanno diventando veri, è divenuto legione. Andiamo a conoscerne qualcuno più da vicino.
1) Approcciare
Quanti di noi storcono il naso ogniqualvolta (sempre più spesso) sentono dire che bisogna approcciare in un certo modo un argomento o una questione? Chiaramente, si tratta di un calco sull’inglese to approach. Oppure no? In realtà, ‘approcciare’ è un francesismo entrato in italiano molto presto – lo usava già Dante! –, da approcher (avvicinare), a sua volta dal latino adpropiare.
L’inglese, però, effettivamente ci ha messo lo zampino: un tempo, in italiano il verbo veniva usato in modo intransitivo (approcciare o approcciarsi) nel senso di ‘avvicinarsi’, o anche in modo transitivo, specie in campo militare (approcciare una piazzaforte nemica, nel corso di un assedio), ma non nel senso figurato di ‘accostarsi ad una questione’, ‘disporsi ad affrontarla’. L’uso transitivo attuale, quindi, è sì influenzato dall’inglese, ma in effetti non è che un’estensione di significato, perfettamente coerente e naturale rispetto ad un uso consolidato da secoli.
2) Resilienza
Da qualche anno, è di gran moda la parola resilienza. Molti, istintivamente, l’hanno guardata subito con sospetto, e iscritta nel novero degli anglicismi. È così? Anche qui, sì e no. In latino, resiliens era il participio presente del verbo resilìre, ossia ‘saltare indietro, rimbalzare’. La prima lingua moderna a recuperare la parola dal latino fu l’inglese, a metà del XVII secolo, come termine tecnico (Bacone definiva resilience la proprietà dell’eco di “tornare indietro”).
L’italiano resilienza apparve un secolo dopo, sempre come termine tecnico, indicante la capacità dei corpi di assorbire gli urti senza spezzarsi. L’uso figurato, come attitudine psicologica a riprendersi da uno choc, a reagire ad un trauma, risale in inglese al 1830, mentre in italiano solo agli anni ’80 del Novecento, quasi certamente per influsso dell’inglese.
Ma è solo a partire dal 2011 che, prima negli Stati Uniti e poi da noi, la parola è diventata di larghissimo uso, ad indicare la capacità di individui e comunità di reagire a circostanze avverse. Una parola perfetta, insomma, in un periodo di crisi economica prolungata e di cambiamenti climatici che innescano reiterate catastrofi ambientali e sociali. Secondo Stefano Bartezzaghi, sarebbe addirittura la “parola-chiave di un’epoca”.
3) Confidente
Qualche mese fa, prima del giuramento del governo da lui presieduto, Giuseppe Conte ha dichiarato: “sono confidente di avere una squadra giovane, amalgamata”. Una frase come questa attiva all’istante i nostri sensibilissimi rilevatori di anglicismi. Ma qui c’entra davvero l’inglese, o è un falso allarme?
In realtà, l’aggettivo confidente nel senso di ‘fiducioso’ (ma anche ‘affidabile, che dà fiducia’) è attestato in italiano fin dal Trecento, benché di solito non come nome del predicato e tantomeno per introdurre una proposizione subordinata. La frase di Conte e altre analoghe (“siamo confidenti che supereremo le attuali difficoltà”), in effetti, sono dovute chiaramente all’interferenza della struttura inglese ‘to be confident that’. Si tratta però di un calco tutto sommato naturale, considerato che ‘confidente’ è sinonimo di ‘fiducioso’ (ancorché desueto) e che esiste già la costruzione “essere fiducioso che”. Più che altro, qui l’anglicismo ha portato al recupero di un’accezione obsoleta.
4) Evidenza
Un’altra parola italiana usata da qualche tempo in modo insolito è evidenza. Sempre più di frequente sentiamo medici o scienziati dire che “non ci sono evidenze” che una certa cosa, ad esempio, sia dannosa (o benefica) per la salute. Ultimamente, l’uso si è esteso anche al di fuori del lessico scientifico: qualche settimana fa, per esempio, dopo l’attentato che ha colpito dei soldati italiani in Iraq, il ministro della Difesa ha dichiarato che “non ci sono evidenze” che l’attacco fosse rivolto proprio ai nostri militari.
Questo plurale ci suona male, perché siamo abituati a considerare evidenza come un nome non numerabile: l’evidenza è la caratteristica di ciò che è evidente. Da qualche anno, invece, si usa evidenza come sinonimo di prova (che è numerabile), e questo avrà senza dubbio a che fare con l’influsso dell’inglese, no? Fino ad un certo punto, a ben guardare: in inglese, evidence significa sì prova (in senso sia scientifico sia giuridico), ma è un nome di massa, quindi non numerabile (il plurale *evidences non esiste).
La struttura inglese “there is no evidence that” è stata modellata in italiano in analogia a “non ci sono prove che”, ma usando evidenza al posto di prova (cosa peraltro corretta, giacché evidence in inglese non indica necessariamente una prova, ma qualsiasi elemento, traccia o testimonianza che induca a ritenere una cosa vera o falsa, ed è così che il termine è inteso in senso tecnico).
5) Derogatorio
Da qualche anno capita di leggere sui giornali frasi come “Tizio ha fatto commenti derogatori (o osservazioni derogatorie) nei confronti di Caio”. Capiamo dal contesto che non si tratta di commenti simpatici, e anche qui, immediatamente, sospettiamo l’influenza del morbus anglicus. In effetti è così: derogatory significa “offensivo, denigratorio”. Stavolta, però, più che un calco semantico ci sembra un prestito adattato, dato che derogatorio, in italiano, probabilmente non lo abbiamo mai sentito.
E invece esiste: derogare, nel linguaggio giuridico, significa limitare, mediante un nuovo provvedimento, l’applicazione di una norma precedente, cioè introdurre un’eccezione. In senso lato, poi, è passato a significare “non osservare, non attenersi ad una certa norma”, usato sempre intransitivamente (derogare a qualcosa). Si dice derogatorio, quindi (o derogativo), un atto o provvedimento che serve a derogare. Sembra davvero difficile, qui, scorgere un legame tra il senso italiano e quello inglese.
Invece, non è poi così arduo: l’atto derogatorio diminuisce la validità di qualcosa; da qui allo sminuire una persona, il passo è breve. Già Dante, infatti, usava derogare nel senso di togliere dignità, onore o prestigio a qualcuno o qualcosa, ossia detrarre, denigrare. Se si affermasse davvero quest’accezione proveniente dall’inglese, anche in questo caso non si tratterebbe che di un recupero, per cui questa parola tornerebbe ad essere appunto una parola, e non un termine giuridico.
6) Sfidante
Un altro vocabolo che ultimamente fa arricciare parecchi nasi è sfidante. Non come participio presente sostantivato del verbo ‘sfidare’, naturalmente: siamo abituati, nello sport, a definire ‘sfidante’ colui che affronta il detentore del titolo, o la squadra che sfida i campioni in carica. Ultimamente, però, la parola viene usata in contesti in cui ci suona assai peregrina: ‘una situazione sfidante’, ‘un lavoro sfidante’, persino ‘un periodo sfidante’. Che c’entri anche qui l’inglese?
Ma certo: challenging (participio presente del verbo to challenge) in inglese significa ‘impegnativo, difficile, che mette alla prova’. Perché non usare i corrispettivi nostrani, allora, invece di prostrare l’italiano nell’ennesima, inutile genuflessione a Sua Maestà l’inglese? Anzitutto, va osservato che “difficile”, “duro” e “impegnativo” esprimono solo un aspetto della situazione, cioè appunto la difficoltà, la durezza, la fatica. Ma una sfida è più che una difficoltà o un impegno: è qualcosa che, investendoti, ti chiama anche al confronto, ti stimola, ti sprona. Inoltre, l’uso aggettivale del participio presente – e passato – dei verbi è del tutto usuale in italiano (e non solo): se dal verbo stancare viene stancante, perché mai da sfidare non può venire sfidante?
7) Quotare
Un ultimo caso, anch’esso molto significativo. Ormai da molti anni, soprattutto su internet, il verbo quotare viene usato in un’accezione assai diversa da quelle riportate dai dizionari (fissare, stabilire delle quote o dei prezzi), ovvero nel senso di citare, riportare le testuali parole di qualcuno.
Naturalmente, si tratta di un calco semantico dall’inglese: to quote, infatti, significa tra le altre cose “citare”. Se fosse tutto qui, si tratterebbe di un calco del tutto superfluo e vano, dato che quotare non aggiunge proprio nulla a citare. Ma c’è di più. Ultimamente, quotare ha subito un’ulteriore mutazione semantica, per cui ora viene usato anche nel senso di “approvare, essere d’accordo” – il passaggio dal semplice riportare ciò che ha scritto qualcuno al citarlo in modo elogiativo, approvandolo, è chiaro: un’evoluzione simile ha avuto il verbo stimare, da “giudicare il valore di qualcosa” ad “avere grande considerazione di qualcuno o qualcosa”.
E così si è tornati quasi al punto di partenza, dato che quotare, nel XV secolo, significava non genericamente “stabilire il valore di qualcosa” bensì proprio “valutare positivamente”. Un altro caso di recupero semantico, quindi.
Questione di digestione
Che conclusioni si possono trarre da questi esempi? Anzitutto, che i legami di parentela tra le lingue e le parole sono molti, intricati, mutevoli e a volte insospettabili. Le parole sono fiori impollinati da insetti e venti disparati; a volte, una pianta pare seccarsi in una certa lingua ma poi, molto tempo dopo, la sua semenza ritorna, portata da un vento straniero, e all’inizio non la si riconosce.
Capita non di rado che, nelle tante parole neolatine del suo vocabolario, l’inglese abbia conservato dei semi, dei significati che in italiano non erano più vitali. Magari col tempo si sono un po’ trasformati, ma poi, alla fine, si rivelano parenti e amici veri, per nulla falsi. È anche per questo che i calchi semantici, dopotutto – pur nell’enorme, innegabile disparità di forze tra italiano e inglese – sono spesso molto più che un’acquisizione passiva, e in fondo costituiscono una manifestazione di vitalità della nostra lingua, ancorché indotta dall’esterno.
Essi aumentano la polisemia, arricchiscono le parole italiane di nuovi significati. Il vero pericolo, come avvertono giustamente tutti i linguisti, è la quantità di anglicismi superflui non adattati, non rielaborati, non digeriti, che ha superato da tempo il livello di guardia. E con un tale mastodontico peso nelle viscere, una lingua, se non muore, come minimo rischia uno stato di permanente sonnolenza postprandiale.