Dobbiamo abituarci a ministra, assessora, sindaca

La questione del femminile di nomi tradizionalmente maschili, in particolare dei nomi professionali, è molto dibattuta, ma dando un occhio a etimologia e formazione delle parole in italiano non resta molto da discutere.

La questione del linguaggio che tiene conto della convivenza delle differenze (spesso semplificato in 'linguaggio inclusivo') è una delle frontiere attuali dell'evoluzione della lingua italiana: davanti al nuovo c'è sempre una certa resistenza — ma è importante avvicinarlo con l'interesse di chi ha davanti la possibilità di una comunità più unita e profonda.

L'obiezione che non vale: «è cacofonico!»

Anni fa lessi un articolo riguardo al presunto fastidio che proverebbero gli anglofoni nell’udire il termine moist (‘umido’). «Ma perché mai, che senso ha», mi chiedevo leggendo; eppure, dando una scorsa ai commenti, quella parola — alle mie orecchie così innocente, pacata e simile a tante altre — risultava effettivamente poco amata.

Non capivo; e ho continuato a non capire fino a non molto tempo fa, quando parlando con degli amici mi sono reso conto di quanto io odi il termine “brodo”. Per il momento, non ho trovato altri che la pensino come me, ma quella parola continua a infastidirmi. So, però, che devo mettermi l’anima in pace: mi tocca usarla. Immaginate: «Mamma, ma stasera hai fatto quell’alimento liquido che si ottiene facendo bollire nell’acqua carne o vegetali con aggiunta di sale, aromi e spezie?». 
Le parole — lasciando da parte tutti quegli aloni di vaghezza del linguaggio poetico e, a volte, prosastico — indicano delle cose ben precise, la sinonimia assoluta non esiste e le circonlocuzioni non sono sempre adeguate al contesto.

«Ma perché» penserete voi «quest’apertura su anglofoni, brodo e umidità?» Semplice: si parla di linguaggio inclusivo, e quando si parla di linguaggio inclusivo si rischia di non riuscire ad arrivare alla terza sillaba ché subito ecco un levarsi unisono di «Ma ministra è cacofonico». Volevo levarmi subito dalla strada quest’obiezione: le preferenze del singolo non danno forma al lessico di una lingua. Certo, potrei essere testardo e smettere di usare la parola “brodo”; potrei cercare di convincere altri a seguire il mio esempio; potrei fare tutti gli sforzi possibili e immaginabili, portare avanti crociate lessicali e sgolarmi – online e dal vivo: no, non si smetterà di dire “brodo”.

Detto ciò: cosa è il linguaggio inclusivo? Perché dovrebbe interessarci? Non va tutto bene, adesso? Le risposte saranno disseminate nelle righe seguenti, però ecco uno spoiler: no, non va tutto bene adesso.

Il linguaggio inclusivo è un capriccio recente?

Quando si parla di linguaggio inclusivo si fa riferimento a un linguaggio che non sia discriminatorio nei confronti dei generi effettivamente rappresentati dalle persone che sono oggetto di quel linguaggio. Qui in Italia il dibattito è relativamente recente – o almeno lo è per quanto riguarda il grande pubblico: già il 28 giugno 1985 Daniela Pasti parlava, in un articolo su Repubblica, del convegno della “Commissione per la parità dei diritti tra uomo e donna”, in seguito al quale, nel 1987, avrebbe visto la luce Il sessismo nella lingua italiana, di Alma Sabatini – che già al convegno aveva condiviso i propri spunti di riflessione. Quel centinaio di pagine è stato la base su cui il dibattito – apparentemente destinato a sopirsi per poi risvegliarsi anni e anni dopo – si sarebbe posto; e attenzione: si sottolinei “apparentemente”! Ci possiamo dimenticare di un’altra delle obiezioni che vengono tipicamente proposte quando si parla di linguaggio inclusivo («Sì, però dai, tutte queste novità! Adesso basta, non si può più dire niente da un paio d’anni a questa parte!»): quel paio d’anni, evidentemente, non è un paio letterale, bensì, come si dice da noi, «un paio alla sarda», un paio che in realtà sono almeno trentacinque anni.

Se il ministro in realtà è la ministra

Già allora si ricorreva, come anche oggi, ad argomentazioni fallaci per opporsi alle proposte di Sabatini. Una di esse, logicamente instabile, ma efficace nel far scaturire inutili ansie e timori in chi legge o ascolta, è la “fallacia della brutta china”: partendo da una tesi, si dà per scontata una conseguenza, che a sua volta viene posta come causa di un’ulteriore conseguenza, e così via. «Se non fai i compiti poi ti mettono un’insufficienza, e se prendi un’insufficienza allora ti bocciano! Poi dopo che ti bocciano non riesci ad andare all’università, e se non ci vai mica trovi un bel lavoro… senza un bel lavoro, i soldi son pochi, e con pochi soldi sarai povero e non potrai permetterti una casa. Vuoi rimanere senza una casa per tutta la vita? No? E allora falli, questi compiti!» Ecco perché si tratta di una fallacia: non c’è un vero nesso di causalità tra queste cose.

In parte m.r. (firmatario o firmataria di un articolo su Repubblica del 19 marzo 1989) fa così: «SE IL MINISTRO DIVENTA MINISTRA», tuona il titolo eloquente. Leggiamo poi un banale dialoghetto fittizio: «Scusi se la disturbo, dottrice. Professora, prego. Lei è la studente che stavo aspettando?». Vien da chiedersi se m.r. abbia dato almeno una scorsa al testo di Alma Sabatini, che suggerisce le regolari forme “dottrice”, “professora” e “studente” per il femminile (“dottrice” sarebbe l’esito del latino doctrix, femminile di doctor; “professora” è un suggerimento di adozione del suffisso -sora per il femminile dei sostantivi in -sore; “studente” è un participio presente, e su questo si tornerà più avanti), senza però mancare di sottolineare come effettivamente nell’uso le forme “dottoressa”, “professoressa” e “studentessa” avessero ormai perso la connotazione negativa legata al suffisso -essa. Eccola, la fallacia della brutta china: «se il ministro diventa ministra, allora diremo dottrice, professora, studente!», e a dire il vero, come spiegato, potremmo. Non lo facciamo perché la lingua non è statica: se un numero cospicuo di parlanti comincia a usare un termine, allora quel termine finirà per essere segnalato nei dizionari – proprio come è avvenuto per “ministra” nello Zingarelli 2021. “Dottrice”, però, è ancora segnalato come variante scherzosa e arcaica di “dottoressa”, “professora” come controparte popolare di “professoressa” e “studente” come forma rara di “studentessa” (se inteso, ovviamente, al femminile). Facendo una ricerca, anzi, si scopre di più: il termine “dottrice” è presente, nel senso di «colei che insegna, ammaestra, diffonde il sapere», nel TLIO – Tesoro della lingua Italiana delle Origini (un dizionario storico on-line che registra il lessico delle varietà della lingua italiana dalle origini fino a, grosso modo, il XIV secolo), che a sua volta rimanda alla voce “eruditore” nel GDLI – Grande dizionario della lingua italiana. Sorpresa delle sorprese, l’esempio citato è proprio lo stesso del TLIO, tratto dalla Leggenda di S. Chiara d’Assisi, di Tommaso da Celano, volgarizzata (a cura di G. Battelli, 1952), in cui non solo troviamo il termine “dottrice”, ma addirittura “eruditrice”! Insomma: m.r. non ha fatto altro che mettere sotto agli occhi dei suoi lettori, come se fosse uno spauracchio, una realtà così antica da essere addirittura superata.


Al punto: i femminili professionali in pratica

«Belle, tutte queste notizie», potreste pensare con interesse. «Forse forse mi vien voglia di provare a usarle, queste parole al femminile», qualcuno potrebbe dire. «Certo… ma come faccio, se non le ho mai usate e non le conosco?» Obiezione lecita. Partiamo ab ovo: la lingua italiana ha mantenuto la distinzione in generi che c’era in latino (come schema, perché in realtà ci sono stati diversi passaggi di genere rispetto alla lingua dell’Urbe); il sostantivo italiano può essere maschile o femminile, e per comprendere come formare il femminile di un termine bisogna vedere prima quattro tipologie di sostantivi:

  • quelli di genere fisso, in cui i due generi hanno due forme distinte (“la madre e il padre”, “il fratello e la sorella”, “il maschio e la femmina”, “il toro e la vacca”);
  • quelli di genere promiscuo, in cui il termine è uno solo (tendenzialmente si tratta di nomi di animali) e viene specificato con l’apposizione “maschio” o “femmina” (“la tigre femmina e la tigre maschio”);
  • quelli di genere comune, la cui specificazione di genere viene espressa mediante l’articolo (“il giornalista e la giornalista”, ma si badi che a volte la forma rende esplicito il genere al plurale, e quindi “i giornalisti”, ma “le giornaliste”);
  • quelli di genere mobile, che cambiano desinenza al femminile (“il ministro e la ministra”, “l’imprenditore e l’imprenditrice”).

Il marito, la moglie e la tigre - genere fisso e promiscuo

Per quanto riguarda i sostantivi di genere fisso, il problema non si pone; idem per quanto riguarda quelli di genere promiscuo; concentriamoci un po’ su quelli di genere comune, così da sfatare un altro mito riguardo al linguaggio inclusivo (e cioè che -o è maschile e -a è femminile).

La presidente e il giornalista - genere comune

Tra i sostantivi di genere comune ci sono i participi presenti sostantivati, i nomi composti con degli specifici suffissi e alcuni nomi terminanti in -e e in -a.

  • Parlando di participi presenti sostantivati, possiamo richiamare uno dei suggerimenti di Sabatini nel testo menzionato sopra: “studente” è proprio un participio presente sostantivato, come “docente”, “presidente” (no, nessuno ha mai chiesto che si dicesse “la presidenta”: si tratta di un’invenzione del Giornale), “amante”, “cantante” e via dicendo. Tuttavia, come sottolinea Vera Gheno (@a_wandering_sociolinguist), “sociolinguista errante” e collaboratrice della redazione dell’Accademia della Crusca dal 2002 al 2019, in Femminili singolari (libro, oltre che utile, particolarmente simpatico, dati i richiami ai commenti sui social media e i siti internet prontamente smontati dall’autrice), non c’è bisogno di sotterrare le forme che già sono nell’uso: si dirà “la studentessa”, visto che il suo uso è consolidato – ma se qualcuno volesse dire “la studente”, niente in contrario e nessun errore, tecnicamente.
  • Tra i sostantivi di genere comune, vi sono poi quelli composti coi suffissi -ista, -cida, -iatra e -arca. Sì, finiscono in -a. No, non sono necessariamente femminili. La loro forma è questa per questioni etimologiche:
    • il suffisso -ista viene dal latino -ista, a sua volta dal greco -ιστής (-istḕs), e si usa per formare un nomen agentis, ovverosia il nome di chi compie un’azione (Giovanni Battista era Iohannes Baptista in latino e Ἰωάννης Βαπτιστἠς, Iōànnes Baptistḕs in greco, da βαπτίζω, baptìzō, ‘battezzare’);
    • il suffisso -cida viene dal latino -cida, da caedere, ‘uccidere’, e indica un uccisore (si pensi a “parricida”, “femminicida” etc.);
    • -iatra viene dal termine greco ἰατήρ, iatḕr, ‘medico’, e come in “pediatra”, “geriatra” etc. indica un medico specializzato in una branca della medicina;
    • infine, il suffisso -arca viene dal latino -archa, a sua volta dal greco -άρχης, -àrkhes, e si usa per designare chi sta a capo di qualcosa (“eresiarca” è colui o colei che sta a capo di un’eresia: Ario fu l’eresiarca dell’arianesimo, per esempio).

Questi suffissi terminanti in -a, dunque, non sono femminili usati anche per il maschile, con buona pace del giornalista contrario al linguaggio inclusivo che rivendica il suo essere “giornalisto”.

  • L’etimologia dissipa i dubbi anche per quanto riguarda i nomi terminanti in -e e in -a di genere comune: si pensi a “giudice” (da iudice[m], accusativo di iudex) e a “collega” (da collega).

La maestra, la ministra e la direttrice - genere mobile

Rimangono da citare i sostantivi di genere mobile. Si tratta di quei nomi, come si è detto, la cui formazione del femminile dipende dal cambio di desinenza: esempi noti sono “il gatto e la gatta”, “la maestra e il maestro”, “il direttore e la direttrice”. Leggendo gli esempi appena proposti, è chiaro come il voler osteggiare a tutti i costi alcuni sostantivi femminili sia meramente una presa di posizione (più ideologica che altro): se fonicamente non ci infastidisce “maestra”, perché mai dovrebbe infastidirci “ministra”? E non si tiri in ballo l’etimologia e l’uso di ministra latino unicamente in ambito religioso, perché altrimenti, su magister e minister di cose da dire ce ne sarebbero tante, fin troppe.

In questa categoria di nomi possiamo ricordare:

  • i sostantivi che al maschile terminano in -o e in -e. In questi casi, il femminile si può ricavare con la sostituzione della terminazione con una -a: “l’infermiere e l’infermiera”, “il maestro e la maestra”, “la ministra e il ministro”, “il deputato e la deputata”, “l’architetto e l’architetta”;
  • i sostantivi che al maschile terminano in -tore e in -sore. Si tratta di suffissi utilizzati per la formazione di nomina agentis (quindi sostantivi esprimenti l’agente di un’azione) o aggettivi derivati da verbi, solo che la -t- muta in -s- qualora il verbo in questione abbia (o avesse in latino) un participio passato con radice terminante in -s-.
    In questo caso, è utile un’ulteriore schematizzazione interna
    • i nomi che al maschile hanno il suffisso -tore formano regolarmente il femminile con il suffisso -trice (in latino, rispettivamente, -tōr e -trīx): “l’autore e l’autrice”, “l’attrice e l’attore”, “la scultrice e lo scultore”, “il genitore e la genitrice”, “la lettrice e il lettore”. Come detto più su, in questa categoria rientra anche il termine “dottore”, che formerebbe regolarmente il femminile “dottrice” (attestato); nonostante questa possibilità, è affermata nell’uso la forma “dottoressa”, nella quale il suffisso -essa ha perso la connotazione dispregiativa originaria;
    • i nomi che al maschile hanno il suffisso in -sore possono formare il femminile con l’aggiunta del suffisso -itrice alla radice terminante in -d-: “la posseditrice e il possessore”, “la trasgreditrice e il trasgressore”; tuttavia, si sta cominciando ad affermare un uso più lineare e semplice per la formazione di questi femminili: la semplice sostituzione di -sore con -sora (“l’assessore e l’assessora”, “l’evasore e l’evasora” etc.) Questo metodo allinea i femminili dei sostantivi in -sore a quelli dei termini terminanti in -e visti su (pur non uscenti in -sore).

Viene naturale chiedersi, allora, perché tutti questi problemi quando si parla di linguaggio inclusivo. Come “il gatto e la gatta” anche “il sindaco e la sindaca”, no? Come “il maestro e la maestra” pure “il ministro e la ministra”, e “il direttore e la direttrice” sono a un prefisso di distanza da “il rettore e la rettrice”. Lo ricordo: «è cacofonico» non vale.


L’argomento è vasto e a tratti complesso: ars longa, vita brevis, dice Seneca citando Ippocrate. Per un quadro sempre completo e al passo coi tempi, il mio suggerimento è quello di consultare un buon dizionario aggiornato; come si è già detto, poi, la lingua non è fatta di decisioni prese a tavolino, ma di volontà dei parlanti. Fornendo qualche strumento in più, e sfatando qua e là qualche mito al riguardo, si può far sì che questa volontà sia consapevole e si possa, nella quotidianità durante la quale la lingua si viene a creare, smentire il “pediatro” di turno.