Il cambiamento linguistico: che cos’è e come funziona
Le parole evolvono, con esse la nostra capacità di includerle nella lingua: vediamo che cosa significa rapportarsi al cambiamento linguistico.
“La parola è come una casa della quale si siano cambiate a più riprese la disposizione interna e la destinazione”.
Ferdinand de Saussure, “Cours de linguistique Générale”
Processi di semplificazione, svilimento, riduzione, alterazione, cancellazione, perdita; le parole di una lingua sono soggette a molti cambi di vestito. Tuttavia, questo ci sembra spesso troppo da ammettere nella nostra amata lingua. Ma cos’è esattamente che ci mette in condizione di valutare, di esprimere un giudizio su cosa è giusto ammettere e cosa no?
A questa domanda si risponderà facilmente “la grammatica” (perché scendere è solo intransitivo e un complemento oggetto proprio non ci va) oppure “il senso” (perché quando dico “vado a bere” significa solo che manderò giù qualcosa di liquido, vero? Non mi riferisco ad alcun superalcolico). Eppure, le cose sono un tantino più complesse di così.
Facciamo un passo indietro e rendiamo le cose semplici: consideriamo, in questo contesto, la lingua come un complesso sistema che si compone di parole e della loro storia, insieme con le regole di composizione che sono loro connaturate. Di questo sistema sappiamo che la sua funzione basilare è quella di rispondere a problemi di natura cognitiva e comunicativa insieme: gli interlocutori devono potersi dire quello che hanno bisogno di dire e devono pure capirsi tra loro.
L'enciclopedia nella nostra mente
Teniamo presente che una lingua ha un lato individuale e uno sociale che sono inscindibili, poiché l’uno non ha motivo di esistere senza l’altro. Sempre per farla semplice, ciò che intendo dicendo una parola, dovrà grosso modo corrispondere a ciò che intende il mio interlocutore con quella stessa parola, sempre per la questione del farsi capire cui abbiamo appena accennato.
Questa condizione di comprensione è quindi fondamentale per condurre opportunamente una comunicazione efficace e di successo, anche solo per dire “mi prendi il pane?”: il mio interlocutore mi potrà passare la busta contenente il pane oppure un panino, o anche una fetta di pane. Quel che è certo, è che non mi passerà una forchetta.
La continuità lineare della lingua che assicura il realizzarsi di questa condizione è fondata su due fattori principali: il tempo, in grado di alterare il contenuto delle parole modificandolo, e il parlante, che dà alle parole una sistemazione e un’approvazione sociale indispensabili alla sopravvivenza delle parole stesse nella comunicazione.
La condizione di comprensibilità della comunicazione, inoltre, necessita che viga costantemente tra i soggetti coinvolti un accordo tacito, una sorta di patto per cui ogni aspetto della realtà è categorizzato e individuato da una parola; questa condizione è a sua volta realizzabile grazie al fatto che i parlanti una medesima lingua condividono quella che è tecnicamente chiamata “conoscenza enciclopedica”. La conoscenza enciclopedica corrisponde all’insieme di conoscenze sulla vita e sul mondo, determinate dalle esperienze soggettive che però accomunano la maggior parte dei parlanti; una banale associazione come giorno-luce / notte-buio è parte di tale conoscenza. Abbiamo detto che però la conoscenza enciclopedica è determinata da esperienze che, quantunque siano comuni ai parlanti, sono soggettive.
La parola, in questo contesto di soggettività delle esperienze, costituisce l’appiglio immanente che tutti necessitano per portare a un livello di realtà – che sia davvero spendibile – le proprie conoscenze. Riassumendo, conoscere le parole ci garantisce la possibilità di ancorare alla realtà la nostra comunicazione e di determinarne con precisione i limiti.
Principio critico (in)cosciente: la sensibilità linguistica
Benché possa sembrare banale dire che “conoscere le parole della propria lingua” è importante, non è altrettanto banale riscontrare una pratica di questo principio; la semplificazione, ormai è chiaro, è un meccanismo che opera incessantemente sul sistema della lingua e ne altera il grado di conoscenza da parte dei singoli parlanti.
Nemmeno quella lingua tanto familiare e magari pure poco raffinata con cui ogni giorno facciamo fronte a tutte le più elementari funzioni di comunicazione è scevra dai condizionamenti della realtà: quando è stata, per esempio, l’ultima volta che vi siete preoccupati del vestiario, invece che dell’outfit? Eppure, nulla dice che la seconda sia una scelta “più semplice” della prima. La semplificazione sta nel non mantenere ugualmente attive o, parlando tecnicamente, produttive entrambe le forme. Cos’è, quindi, che ci fa scegliere tra le parole facendocene tenere alcune e abbandonare delle altre? È la nostra sensibilità linguistica, che ci guida nell’analisi (perlopiù involontaria) del linguaggio a tutti i livelli, che sia il lessico, la sintassi o la morfologia.
Il parlante, la lingua e l’interpretazione
Il linguista svizzero Ferdinand de Saussure, la cui citazione iniziale deve costituire il filo conduttore di questo ragionamento, sosteneva che ogni parlante agisce tanto sulla lingua, con il proprio atto comunicativo (o atto fonatorio), che non sarà mai uguale a quello di chiunque altro, quanto nella lingua, con un’attività incosciente definita di classement con cui il materiale linguistico viene categorizzato e conseguentemente asservito alla comunicazione. Ogni parlante, inoltre, opera sulle singole parole una “analisi soggettiva”, ossia l’attività per cui si riconosce una parola come un’unità linguistica dotata di significato. Quest’analisi sarà tanto più fine, quanto più la sensibilità linguistica è allenata a porsi delle domande criticamente intelligenti ed eventualmente darsi delle risposte soddisfacenti (o magari anche no! Talora si imparano più cose da un dubbio, che da una certezza, specie quando si parla di lingua).
Tale sensibilità ha un carattere attivo, dinamico e considera le possibilità significative di tutto ciò che in essa ha concretezza. Solo ciò che è concreto – ossia presente alla sensibilità linguistica – viene interpretato in ogni sua possibilità significativa. Ciò vale a dire che la nostra capacità di interpretare la comunicazione dipende inscindibilmente dalla nostra sensibilità linguistica (tanto per il detto che per il non-detto, ma questa è un’altra storia). La nostra attività di interpretazione, che è quindi quella preponderante della nostra sensibilità linguistica, agisce al livello di sistema e non di singola produzione; dunque, più la alleniamo a riconoscere le parole, migliore sarà il risultato in termini interpretativi della comunicazione. Questo è quello che la conoscenza delle parole ci dà: precisione.
La lingua è creatrice e distruttrice ed è perfettamente in grado di ricomporre ciò che scompone. Ma, a questo punto, la domanda che è giusto porci è: noi siamo davvero in grado di seguire e tenere traccia dei suoi mutamenti?
Questo è ciò a cui una buona sensibilità linguistica sa rispondere: tenere ciò che è già esistente per saper integrare meglio il nuovo. La lingua, infatti, anche nelle parole del già citato Saussure, implica sia un componente stabile che una evoluzione ed è, per questo, tanto un’istituzione attuale, quanto un prodotto del passato. Ma quale integrazione funziona davvero senza una profonda conoscenza di ciò che esiste già? Il nostro processo di scelta è costantemente in atto, in termini di approvazione sociale; per quanto oppositivi al cambiamento ci si possa dichiarare, una parola entra in una lingua una volta raggiunto uno statuto di “unità linguistica significativa” per la sensibilità dell’intera comunità linguistica.
Fabbri della lingua, fabbri della realtà
Nella lingua i processi di rinnovamento sono fisiologici e naturali, oltre che indicatori di salute di un sistema linguistico; la nostra responsabilità nel saper coltivare una sensibilità linguistica riguarda le scelte che al livello di contemporaneità operiamo nel nostro parlare. Tutti gli elementi di una lingua coesistono, infatti, in un dato momento storico; importante è saper rendere conto delle scelte linguistiche che operiamo e delle conoscenze che a esse ci conducono. Perché è questo il punto della nostra riflessione: arrivare a scegliere, guidati da una sensibilità che da un lato non sia troppo inflessibile da rendere le nostre idee cristallizzate, ma che dall’altro non si dimostri troppo superficiale da esporci al pensiero di chicchessia. Allenare la propria sensibilità linguistica significa, in conclusione, mantenere viva e cosciente questa capacità di scelta delle parole e, di conseguenza, dei pensieri, entrambi concetti astratti tramite i quali siamo in grado di mettere radici così profonde nel processo di creazione della nostra realtà.
Homo faber fortunæ suæ, ma a questo punto anche linguæ suæ. Siate quindi i migliori fabbri che riuscite a essere, ché alle brutte si può sempre fare palestra concentrandosi sulle parole che ancora non si conoscono!
“La langue est un système dont toutes les parties peuvent et doivent être considerées dans leur solidarité synchronique”.
Ferdinand de Saussure, “Cours de linguistique Générale”
(La lingua è un Sistema in cui tutte le parti possono e devono essere considerate nella loro solidarietà sincronica)