Quali parole possiamo usare al posto di ‘matrigna’, ‘figliastro’, ‘sorellastra’
Da Cenerentola alla ‘stepchild adoption’, storia, presente e qualche soluzione riguardo ad alcuni suffissi scomodi che abitano il nostro immaginario e rendono spiacevoli figure famigliari
In questi anni molte persone ci hanno scritto chiedendo lumi e aiuto riguardo a dei termini da cui non si sentono rappresentate, che percepiscono come non adatte, anche se tecnicamente descrivono in modo corretto una loro relazione famigliare. Visto che la questione è delicata e articolata, abbiamo chiesto alla linguista Beatrice Cristalli di chiarirla sotto il profilo storico ed evolutivo.
I termini matrigna, patrigno, sorellastra, fratellastro e figliastro ci accompagnano sin dalla nostra infanzia, dai tempi delle fiabe e dei cartoni Disney. Anche se oggi quel suffisso suona alle nostre orecchie negativo e fastidioso, nel parlato le soluzioni neutre per indicare queste figure talvolta non sostituiscono le espressioni antiche, che si sono cristallizzate nell’immaginario collettivo come simboli e giudizi estetici. In questo articolo ripercorreremo la storia di alcuni prefissi e suffissi scomodi e cercheremo di fare chiarezza sulle soluzioni linguisticamente più produttive fino ad ora adottate dai parlanti.
Da Leopardi ai dialetti, e viceversa
Matrigna come aggettivo o come sostantivo? Qualsiasi sia la parte del discorso di cui stiamo parlando, l’immagine che veicola questa parola assume in ogni caso le sembianze di una figura nemica, perfida e crudele. Pensiamo solo alla Natura leopardiana, «madre di parto e di voler matrigna» (La ginestra, v. 125) del genere umano, condannato a un’eterna infelicità, e ancora alla cattiva per eccellenza, Lady Tremaine, la matrigna di Cenerentola di Charles Perrault nella versione Disney.
È curioso notare che in origine il suffisso -igno, che immediatamente stride oggi alle nostre orecchie, non aveva valore negativo. Il termine matrigna nasce infatti da una trafila etimologica coerente, dal va dal latino mater al latino tardo matrigna, su esempio di privignus (“figlio di primo letto”). Dal modello femminile, poi, è derivato il maschile patrignus, per indicare, secondo il vocabolario Treccani:
«il secondo (o successivo) marito di una donna rimasta vedova, rispetto ai figli nati nel precedente matrimonio (o, eventualmente, nei precedenti)».
E poi cos’è successo? Il suffisso -igno, in questa ristretta classe di nomi parentali, ha assunto nel tempo valore valutativo, acquistando lo stesso peso che nei dialetti ricopre il produttivo -ast(r)|u, come nel siciliano patrastru, mammastra, fratastru, surastra e nel calabrese parrastu, sirastu, tatast (per patrigno) ecc. Infatti è stato proprio il suffisso latino -aster ad aver trasportato nell’italiano l’aura negativa dei sostantivi di parentela, a partire da un significato insospettabile, cioè “somigliante”. Ma andiamo con ordine.
La maxi storia del suffisso -aster
Se vi dico porcaster riuscite a immaginarvi un maialino piccolo e indifeso? Non credo. E il motivo è semplice: la nostra lingua è continuamente in movimento, segue le onde della risemantizzazione, dell’attribuzione di nuovi significati a elementi già esistenti. Il suffisso -aster, che inizialmente indicava mera somiglianza, ha dato vita a due significati, che hanno viaggiato parallelamente nel corso del tempo: quello quantitativo (diminutivo) e quello qualitativo (peggiorativo).
Il valore diminutivo, che riguarda appunto porcaster, sembra essersi unito al suffisso a partire dalla nominazione dei cuccioli di animali, in cui il concetto di “somigliante” si sarebbe unito a quello di “piccolo”, nel senso di “giovane”, e anche alla nicchia lessicale della vegetazione spontanea. Il vocabolo oleaster indicava sì un’olivo spontaneo, ma non di buona qualità. Quanto al significato peggiorativo, lo slittamento era insomma già scritto nelle stelle. Secondo alcuni studi, il passaggio da “somigliante” a “imperfetto” è avvenuto a partire dal campo semantico delle professioni. Date vita nella vostra mente a un poetastro e capirete il perché. Vi ricordate il cicisbeo? Un poetaster è esattamente il «poeta da convito» che Giuseppe Parini ritrae ne Il giorno quando descrive il suo “talento” nel recitare a memoria i Carmi di Orazio, a cui attingeva di nascosto (come se fosse un bigino) durante i pranzi solenni a palazzo.
In effetti, oggi il suffisso ci disturba particolarmente non solo perché rimarca le caratteristiche di perfidia ingiustificata − solo nel Settecento, quando si diffonde maggiormente, il membro famigliare venuto da fuori era macchiato automaticamente da un peccato! −, per esempio quelle attribuite alle iconiche e bruttissime ugly sisters di Cenerentola, che Disney non fece altro che recuperare dai personaggi del dramma giocoso Cenerentola o la bontà in trionfo di Gioachino Rossini (1816), ma anche perché sul modello di fratellastro, sorellastra e anche figliastro, gli sceneggiatori fumettistici hanno costruito degli alterati fortemente espressivi il cui contenuto semantico consisteva nel fondere connotazione dispregiativa e connotazione ludica. Vi dice niente zio Paperone che si rivolge a Paperino come suo nipotastro per eccellenza? Gli esempi di questo uso abbondano già negli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto nel finale di Paperino e i gamberi in salmì (1956), in cui vengono citati appunto nipotastri e cuginastri.
“I figli sono tutti uguali” — le alternative che hanno la meglio
L’uso, probabilmente limitato, degli -astri e degli -igni nel nostro contemporaneo, caratterizzato da famiglie sempre più allargate e ben lontane dagli stereotipi settecenteschi, suscita un interrogativo sulla nostra lingua: è vero che l’italiano non prevede termini neutri che si riferiscano a questi ruoli parentali acquisiti? Ad avere la meglio nel parlato sono le riformulazioni e le perifrasi, come ad esempio, se a parlare è il figlio o la figlia, il marito di mia madre indica il patrigno, mentre la moglie di mio padre indica la matrigna. Forse sono troppo lunghe, ma funzionano. Tra figli e figlie la questione sembra essere più semplice: i termini fratellastro e sorellastra hanno perso la carica negativa e sono ormai sostituiti rispettivamente da fratello e sorella, anche se talvolta sono accompagnati dall’aggettivo acquisito/acquisita. Il tema era già sentito anche nella commedia di Eduardo De Filippo dal titolo Filumena Marturano (1964), in cui non si faceva distinzione fra i tre figli della protagonista: «i figli sono figli, e sono tutti uguali».
Verso i neologismi e oltre
L’argomento, però, si è imposto nella scena italiana durante le discussioni sull’articolo 5 del disegno di legge sulle unioni civili, in particolare riguardo all’espressione stepchild adoption, proposta nel dibattito parlamentare per evitare l’uso del termine figliastro. La risposta della Crusca, in particolare del gruppo Incipit, che si occupa di analizzare e valutare neologismi e forestierismi nel campo civile e sociale, fu negativa. L’illusione del neutro che poteva garantire la lingua inglese venne presto smascherata: il prefisso step- in inglese (es. stepsister), come stief- in tedesco (es. stiefschwester) non ha propriamente sfumatura neutra, anzi, sembrerebbe proprio sovrapporsi a figliastro/figliastra in italiano.
Alla proposta di perifrasi «adozione del figlio del partner» rispose Francesco Sabatini, che nel 2016, nel salotto domenicale di Uno Mattina in famiglia rilanciò con un neologismo che, a sua detta, poteva indicare il figlio di uno solo dei componenti di una coppia, nel rispetto di tutti: configlio. La parola poteva effettivamente funzionare: configlio/configlia è infatti un termine modellato in analogia ad altri gradi di parentela, pensiamo solo a consuocera/consuocero o a compare, con troncamento compa’, utilizzato nello slang e nei dialetti. Dico ‘poteva’ perché ad oggi non solo non sembra rientrare effettivamente nel vocabolario d’uso − anche se è presente nella sezione neologismi di Treccani.it del 2018 − , ma il suo prefisso con- (o co-) solleva dubbi e perplessità circa il significato, in quanto, come affermava Paolo D’Achille nel suo approfondimento Il configlio non è il figliastro, uscito nel 2016 sul sito dell’Accademia della Crusca,
«dovrebbe essere usato per indicare un membro che svolge lo stesso ruolo o funzione rispetto a un altro (si è consuoceri rispetto ad altri suoceri, coautore rispetto a un altro autore)»
Per fortuna (anche se ad alcuni dispiace) nella lingua non esistono soluzioni definitive o, peggio ancora, ingredienti perfetti: parlare − parlare con consapevolezza, non semplicemente emettere suoni − significa imparare ad ascoltare il mondo che ci circonda, un mondo in cui
«ogni giorno siamo esposti non solo a termini e concetti nuovi, ma anche a nuove sensibilità sociali, a nuove modalità di trasmissione di informazioni, idee, stati d’animo»
F. Faloppa, V. Gheno, ‘Trovare le parole. Abbecedario per una comunicazione consapevole’, Edizioni Gruppo Abele 2021.
Un mondo, insomma, in cui una matrigna può essere una parola bellissima, ricca di storia, teatro e di simboli, ma può anche risultare offensiva in determinati contesti. Ecco perché parlare, per me, è davvero sinonimo di ascoltare. E farsi nuove domande.