Quello che l’etimologia non dice
Le parole cambiano: alcuni punti di forza le fanno prosperare, e certi talloni d’Achille le trasformano in parole desuete.
La lingua cambia costantemente; con essa cambiano le parole.
È proprio da questi cambiamenti che spesso nasce l’interesse per il lessico, un desiderio di capire le parole e di dischiuderne i segreti. Ma perché le parole giocano a essere misteriose quando le si interroga sulla loro provenienza o sulla loro storia?
Il costante mutare del lessico di una lingua spesso non è dovuto a una ragione unica e inequivocabile. Un “fanciullo”, ad esempio, ha ad oggi un sapore arcaizzante che ha gradualmente acquisito; in una parola di questo tipo, un parlante comune rileva senza difficoltà una ben precisa volontà formale o, per contro, ironica. Ciò che resta è che questo lemma ha perso la sua connotazione originaria di “giovane uomo”.
I cambiamenti cui le parole vengono sottoposte avvengono per ragioni diverse e non necessariamente unitarie. Al fine di spiegare tali cambiamenti, ci vengono in soccorso la morfologia e la lessicologia, compartimenti della linguistica maggiormente interessati allo studio della creazione, della conservazione e dell’eventuale erosione del lessico.
La lingua cambia inoltre col cambiare della società, degli usi e dei costumi ad essa associati e, tanto lentamente quanto inesorabilmente, fa la muta, cambiando pelle e cambiando quindi gli strumenti che usa per esprimersi. Ma allora, com'è che si studiano le parole, da sé e in relazione con altre?
Quanto funziona una parola? Le ricerche sui corpora
Non potremo mai essere nella bocca — e soprattutto nella testa — delle persone che parlano, ma esistono metodi quantitativi per osservare le occorrenze di un dato lemma nel lessico di una lingua. Ciò è reso possibile dagli studi su corpora.
I corpora sono degli archivi di dati linguistici, o più semplicemente delle raccolte di testi, che possono ad oggi essere sufficientemente grandi da dirsi “rappresentativi” di una data lingua in un determinato momento storico. I dati che possiamo rintracciare in un corpus ci permettono di confrontare il numero di occorrenze di due o più lemmi (ad esempio due sinonimi, se immaginiamo di voler confrontare la vitalità dell’uno e dell’altro).
L’uso dei corpora, che ci consente di calcolare quante volte un dato lemma ricorre in un lessico rappresentativo di una lingua, ci permette di crearci delle deduzioni sullo stato di evoluzione di quel lemma nella lingua stessa. Le differenze che troviamo nel numero di occorrenze di una o dell’altra parola, pur non dandoci delle informazioni generalizzabili o inconfutabili, possono essere anche particolarmente sorprendenti.
I corpora più recenti (i web corpora) contengono una quantità di testi molto elevata, motivo per cui il numero di occorrenze di una singola parola può oscillare dall’ordine delle poche unità all’ordine delle centinaia di migliaia. Una differenza del genere, pur non costituendo una prova inconfutabile della decadenza o della vitalità di un lemma, costituisce indubbiamente un indizio valido per muovere delle considerazioni in un senso o nell’altro.
Passiamo dunque a qualche esempio che ci racconti meglio cosa succede nel fitto coacervo di cambiamenti che portano le parole a fiorire o a perire.
Quanto usiamo le parole? La forza della polisemia
Siamo interessati al lessico, dicevamo: perciò passiamo a parlare di numeri.
Che vitalità ha “lingua”, questa volta non come “sistema utile alla comunicazione”, ma come semplice parola? Ebbene, quella “lingua” che vive e che fa la muta di cui parliamo ormai da qualche riga, si attesta con ben 797.004 occorrenze nel corpus più grande ad oggi consultabile della lingua italiana contemporanea presente sul web (noto come “ItTenTen16”, consultabile al sito https://www.sketchengine.eu/, a cura di Egon W. Stemle e il team di ricerca EURAC).
Cosa ci dice un dato del genere sulla vitalità di questa parola?
Un numero così alto di occorrenze, cioè di volte in cui questa parola compare in questa raccolta di testi, significa che in questo campione, che vuole essere rappresentativo dell’intera lingua italiana contemporanea, questo lemma compare piuttosto frequentemente. Per contro, averne poche, significherà che ci troviamo di fronte a una parola dalla vitalità ridotta (Il numero di occorrenze di questa parola e di quelle che seguono, sono tutti da intendersi riferiti al corpus di riferimento ItTenTen16).
“Lingua” è in italiano una parola con più di un significato ed è detta perciò “polisemica” (sistema convenzionale di segni utile alla comunicazione / muscolo mobile posto all’interno della cavità orale).
La polisemia è uno dei motori che garantiscono la buona conservazione di un lemma, spesso a sfavore di un altro o di altri. Questo fenomeno è di particolare interesse per chi, come noi, si propone di osservare da vicino la vitalità delle parole: se confrontiamo “lingua” con altre parole che posseggono invece un solo significato, scopriremo che la sua ben nota polisemia ne garantisce ottimamente la vitalità.
Parlare al risparmio
Esiste un principio, noto per gli addetti ai lavori come Economy Principle (formulato in origine dal linguista francese André Martinet), secondo cui l’uso, e quindi anche l’evoluzione, di una lingua tende al vantaggio del parlante, individuato proprio nel risparmio delle risorse. Il parlante, che non è altro che un goffo pasticcione, cerca in genere di risparmiare risorse cognitive per semplificarsi la vita. Ammettere la veridicità di questo principio significa dare, almeno in parte, ragione delle variazioni del lessico di una lingua: riduco il numero di parole per facilitare il mio compito di comunicare.
Per tornare al nostro esempio, è forse ora più comprensibile perché troviamo un tale numero di attestazioni di “lingua” nel nostro corpus di riferimento? La polisemia associata a questa parola, nonché la varietà di contesti in cui essa si trova utilizzata, le garantiscono un successo da prima della classe!
Sopravvivere in uno schema
E il “coacervo” che abbiamo pocanzi nominato? Come suona? Di certo meno frequente, o meno comune di “lingua”. Ebbene, esso si attesta con 3.061 occorrenze nel corpus. Cosa possiamo scoprire in merito alla vitalità di questo lemma nel lessico dell’italiano contemporaneo? Osservando i contesti in cui questa parola ricorre, vediamo che — come anche in questo articolo — più che la parola in sé, a essere produttivo è lo schema “coacervo di/dei/delle”. Ciò sta a significare che, tendenzialmente, questa parola ha trovato il proprio modo di sopravvivere inscrivendosi in uno schema cristallizzato, benché venga spesso rimpiazzata da sinonimi meno obsolescenti in altre circostanze.
I due esempi appena riportati ci mostrano come le parole possono percorrere delle strategie diverse di conservazione che consentono loro di mantenere una vitalità tale da garantirsi di rimanere in quel ventaglio di lemmi che un parlante seleziona per veicolare il proprio messaggio.
Il lessico fragile
Ciò non di meno, esistono lemmi meno fortunati, che tendono invece a soccombere di fronte alla pressione di fattori quali il principio di economia, o delle mere ragioni storico-sociali. Esistono interi pezzi di lessico, specialmente lessico tecnico legato a una professione, o a un determinato ambito della vita, che tendono a conservare vitalità fintantoché il loro contesto di applicazione si mantiene attivo.
È anche per questo motivo che, scandagliando ad esempio le occorrenze di un verbo come “Ostracizzare” (996 occorrenze), notiamo che la vitalità di questo lemma è piuttosto ridotta, essendo legato a un uso della politica della Grecia antica, collegamento di cui spesso e volentieri il parlante comune non conosce l’esistenza. Allo stesso modo un aggettivo come “Terragno” (181 occorrenze), legato alla terra ed evidentemente caro a chi la coltiva e la conosce, si è assopito insieme con l’interesse dei parlanti per un tipo di attività, quella agricola, non più diffusa come in altre epoche.
Accanto a spiegazioni di carattere sociale, storico o semantico per ciò che riguarda la vitalità del lessico, non è infrequente trovare poi anche motivazioni di tipo morfologico.
Tornando al già citato Economy Principle, si potrà facilmente immaginare che il parlante tende più facilmente a conservare quelle forme che sono più semplici anche nella loro composizione morfologica, a discapito di quelle più complesse. Prova di ciò è data ad esempio dal fiorire di neologismi, nella fattispecie verbi, che molto spesso finiscono in -are: “hacker-are”, “photoshopp-are”, “vlogg-are”. Il parlante, il pasticcione di prima, ha la tendenza a omologare le voci lessicali e si accontenta piuttosto frequentemente di associare semplicemente una radice di senso pieno (es. “hacker-”) alla più semplice delle suffissazioni flessive verbali (la prima coniugazione, ossia i verbi in -are).
Per questi stessi motivi, per contro, un verbo come “Rimpannucciare” (57 occorrenze) presenta la difficoltà per eccellenza che fa storcere il naso all’uso quotidiano del parlante, ossia una presenza quasi eccessiva di prefissi/suffissi (re-, in-, -ucci-). Questa parola, inoltre, ha anche già perso il proprio valore radicale squisitamente socioculturale del “rimettere in sesto economicamente”, in quanto azione non più comunemente in uso con le stesse dinamiche.
Non solo verbi, però: analizziamo il caso di un nome come “Fantolino” (91 occorrenze). Scomponendolo, troviamo “Fant-”, radice lessicale di “Fante”, già di per sé parola ben poco vitale nell’italiano moderno, “-olin-” suffisso alterativo vezzeggiativo, paritario — in gergo tecnico si dice “allomorfo” — al più produttivo “-in-”, e infine il morfema flessivo “-o”. Una forma con una complessità morfologica più accentuata, che non si conserva in espressioni note o frasi fatte e che per giunta non indica un contenuto particolarmente preciso, ma che anzi presenta sinonimi ben più vitali (“bambino”, ad esempio), farà indubbiamente più fatica a conservarsi vivida nella memoria del parlante.
Conservarsi pasticcioni, conservarsi liberi
Riassumendo, quindi, non v’è da meravigliarsi se di tanto in tanto chi si interessa di questioni riguardanti le parole abbia la necessità di gridare al problema dello svilimento del lessico. La verità è che l’etimo non basta: la lingua non è altro che la miglior soluzione che filogeneticamente l’uomo ha trovato per un evidente problema di comunicazione.
Il risparmio, che tanto viene demonizzato dai grandi maestri e intenditori della lingua, costituisce in realtà una tendenza fisiologica nell’infinito continuum che è il processo di evoluzione della lingua. Esso non costituisce di per sé un problema. Ciò che può invece essere problematico è la perdita della sensibilità linguistica rispetto a parole che, perdendosi, riducono la nostra possibilità di esprimere con precisione un messaggio. La lingua non è un’entità indipendente dall’uomo, e non è di conseguenza indipendente nemmeno dal pensiero di quest’ultimo: svilirla genera l’inevitabile contrappasso dello svilimento del pensiero.
Coltivare la propria sensibilità linguistica non è solo utile a far sfoggio in maniera fine a sé stessa di un lessico elegante (quantomeno non solo, l’uomo del bello non è mai sazio). Coltivare la propria sensibilità linguistica significa garantirsi la possibilità di veicolare un messaggio preciso, che dice esattamente ciò per cui viene generato. Il parlante è un pasticcione, è vero, ma un pensiero esatto è un pensiero che rende liberi.
Siate allora dei pasticcioni liberi.