Le parole della magia (parte 1)
Da dove vengono tutte quelle parole strane e misteriose come ‘amuleto’, ‘abracadabra’ e personaggi indimenticabili come la Fata Turchina e Albus Silente?
Salagadula magicabula bibbidibbodibù
Fa la magia tutto quel che vuoi tu
Bibbidibobbidibù!
Quando la Fata Smemorina si adopera in una strepitosa magia che permetterà a Cenerentola di andare al Gran Ballo e di incontrare così il Principe del Regno, brandisce la sua scintillante bacchetta magica che spruzza faville dalla punta, ma, cosa ancor più importante, pronuncia la formula magica, in questo caso ‘Bibbidibobbidibù!’
Il potere delle parole
Le parole, oltre alla funzione basilare di comunicare messaggi, idee e sentimenti, sin dalla notte dei tempi hanno avuto una forte connotazione creatrice, basti pensare al fiat lux nella Genesi: “Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.”
Il concetto è semplice: si dice una cosa ed essa esiste. Causa ed effetto.
D’altra parte, una volta detto qualcosa, è impossibile rimangiarselo. Le parole restano sospese nelle menti di chi le ha udite, gli animi rispondono, gli spiriti ne sono toccati. Che sia un’offesa, una bugia, un insulto urlato nel pieno di un’amara discussione o un ‘ti amo’ lanciato come una bomba per vedere che succede, le parole creano e distruggono.
Ecco quindi il passo che esse compiono dall’essere semplice veicolo di un messaggio al diventare vero e proprio utensile, strumento, per giunta, di cura, protezione, attrazione, difesa, attacco. Il potere evocativo della parola diventa potere creativo. Magico.
Abracadabra etc.
Il vocabolario della magia è vasto, misterioso ed affascinante. Si pensi alla formula magica per eccellenza, ‘abracadabra’. Di teorie sulla sua origine se ne sono sentite di tutti i tipi. Gli studiosi hanno concluso con discreta sicurezza che abbia origini semitiche; forse, come riporta il vocabolario Treccani, dall’ebraico ha-bĕrakāh dabĕrāh ovvero ‘pronunciare la benedizione’.
Abracadabra, secondo Quinto Sammonico Sereno, tutore di Caracalla e autore del Liber Medicinalis, una raccolta di rimedi popolari ai più svariati malanni, va inscritta in un triangolo: ad ogni rigo essa perde una lettera: ABRACADABRA / ABRACADABR / ABRACADAB… eccetera, fino ad esaurirsi nella A. Se il triangolo ha il vertice rivolto all’insù, l’oggetto magico con l’iscrizione in questione serve ad attirare, ad accrescere (amore, fortuna, salute), così come le lettere della parola aumentano man a mano che si scende. Se invece è all’ingiù, allora esso serve a scacciare, a far diminuire (malasorte, malattia, dolore), poiché la parola si rimpicciolisce fino a sparire.
In tempi recenti abracadabra ha dato origine, nella mente multiforme e coloratissima della scrittrice Joanne Rowling, alla Maledizione Senza Perdono ‘Avada Kedavra’, la magia che uccide e a cui Harry Potter sopravvive in culla.
Teste d’aglio, corni rossi e mani misteriose
Dicevamo che abracadabra può essere usata sia per scacciare che per attirare, azioni che possono esser facilitate da due tipi di oggetti che spesso vengono confusi tra loro: l’amuleto ed il talismano.
La parola ‘talismano’ pare sia giunta nelle lingue neolatine attraversando la lingua araba che a sua volta ha mutuato questo vocabolo dal persiano. Nella lingua persiana l’espressione era giunta partendo dal greco: telesma significa infatti ‘cose consacrate, rituali sacri’.
Il termine ‘amuleto’ deriva invece dal latino amuletum. L’origine è per di più sconosciuta, ma c’è chi afferma che c’entri il verbo amoliri, ovvero allontanare, tenere distante.
Qual è la differenza tra le due parole? È corretto usarle come sinonimi? Certo entrambi i lemmi si riferiscono a piccoli oggetti che si possono portare sulla persona, entrambi con supposti effetti magici, ma i sinonimi perfetti non esistono. Vi si possono leggere differenze di sfumatura, ma qualcuno avanza una differenza di scopo.
Mentre l’amuleto scaccia, respinge, tiene lontano malocchio e malasorte ed è quindi un oggetto apotropaico, come il corno rosso napoletano, o la testa d’aglio, o la hamsa delle tradizioni semitiche, il talismano attira sulla persona che lo indossa fortuna, salute, amore e quant’altro, ovvero è un oggetto propiziatorio, come il quadrifoglio o il ferro di cavallo. È un'ipotesi d'uso.
Una piccola, interessante nota sulla hamsa: questa parola, in arabo, significa semplicemente cinque, un numero considerato di buon auspicio. La hamsa è un amuleto raffigurante una piccola mano con le dita unite, come a dire ‘Tu non puoi passare!’, spesso decorata con ipnotici arabeschi. Essa è anche detta mano di Fatima dai musulmani, mano di Miriam dagli ebrei e mano di Maria dai cristiani d’oriente. Ci sono molte leggende, dietro questo oggetto, che sarebbe bello approfondire.
A quale professionista rivolgersi?
Malocchio, malie, fatture, sortilegi, incantesimi… quante parole per definire le varie sfumature di una magia. E altrettanti nomi esistono per gli operatori che eseguono l’atto: c’è la strega (dal latino striga, variante popolare di strix, cioè ‘civetta’), perfida e invidiosa come quella di Biancaneve o povera, tragica e innocente come l’orfanella Antonia. Il maschile stregone, complici personaggi letterari come Gandalf il Grigio (poi Bianco), Albus Silente e Merlino, ne hanno dato un contorno più benigno, ma è comunque meglio non imbattersi in uno strego della Garfagnana, figuro ambiguo e pauroso di cui son piene le fole.
C’è la maga, come la maliarda Circe, versione femminile molto meno prestigiosa e altolocata del mago zoroastriano (da cui i Re Magi e la stessa magia). C’è la fattucchiera (ovvero che ‘fa le malie’), in genere zigana e vagabonda, associata alla chiromante (che legge la mano), alla cartomante (che interroga i Tarocchi), dotata anche di una sfera di cristallo e di una scorta di erbe con cui prepara decotti per aiutare le giovani contadine cadute in disgrazia ad abortire senza che il padre e il prete se ne accorgano.
Poi c’è la fata, dal fatum latino, cioè il destino, come la succitata Smemorina che aiuta Cenerentola con il vestito per il ballo, o la dolce Turchina che muore di dolore (per finta) poiché è stata abbandonata da Pinocchio. Nelle tradizioni italiane e francesi la fata è un personaggio dai lineamenti generalmente positivi: bella, gentile, cerca di aiutare il protagonista a raggiungere il suo scopo e premia sempre la bontà. Nelle culture celtiche, invece, la fata (le fey – the fairy) può anche oltrepassare il velo limine tra luce e ombra, diventando un personaggio avido e crudele, come ad esempio la Fata Morgana del ciclo arturiano, il ‘true love’ di Lord Randall o ‘La belle dame sans merci’ di John Keats. Può anche essere associata ai folletti, agli elfi e agli gnomi, ed è dunque un membro del cosiddetto piccolo popolo, che si trova al di là di ogni definizione di bene e male, come la meravigliosa ed esuberante Titania del ‘Sogno di una notte di messa estate’ di Shakespeare.
Shakespeare, il mago della lingua inglese
E per concludere con i versi dell’immortale Bardo, rivelatori di quanto e di come la parola sia creatrice del proprio significato, ecco le Tre Streghe che salutano Macbeth, nella scena terza del primo atto:
Prima strega: Salute a te, Macbeth, signore di Glamis!
Seconda strega: Salute a te, Macbeth, signore di Cawdor!
Terza strega: Salute a te, Macbeth, futuro re!
Il dado è tratto, il seme dell’ambizione è stato gettato nel cuore di Macbeth. La magia è compiuta e le mani del generale e di sua moglie si bagneranno di sangue. Macbeth avrebbe mai ucciso il suo re se non avesse udito le parole delle streghe?
(Continua nella seconda parte, che sarà pubblicata la prossima settimana!)