I confini del mondo
La trasformazione del reale attraverso le parole in Dogtooth (Κυνόδοντας) di Yorgos Lanthimos
Un’audiocassetta viene inserita in un registratore Panasonic, un dito preme il tasto play per ascoltare la lezione del giorno. «Le parole nuove che impareremo oggi sono le seguenti: “mare”, “autostrada”, “escursione”, “carabina”. Un “mare” è una poltrona di pelle con braccioli di legno come quella che c’è in soggiorno. Esempio: “non rimanere in piedi, siediti sul mare e chiacchiera un po’ con me”. “Autostrada” è un vento molto forte. “Escursione” è un materiale molto duro usato per fare pavimenti. “Carabina” è un bellissimo uccello bianco». Ad ascoltare le parole, registrate dalla madre, ci sono figlio, figlia maggiore e figlia minore, protagonisti senza nome della vita familiare in una casa situata da qualche parte nella brulla campagna greca. Una piscina, un grande giardino verde, pareti e vetrate incorniciate di bianco e un cancello automatico, una porta chiusa sul mondo che solo il padre può oltrepassare.
«Un bambino è pronto a lasciare la sua casa quando…?»
«Quando il canino destro cade»
«O il sinistro, non è importante quale. In quel momento, il corpo è pronto ad affrontare tutti i pericoli. Per lasciare la casa in sicurezza bisogna usare la macchina. Quando uno può imparare a guidare?»
«Quando il canino destro ricresce. O il sinistro, non importa quale»
In questa abitazione isolata madre e padre crescono tre figli, lontano dalla società, vincolandoli al perimetro della casa e ad una serie di leggi bizzarre, competitive e spesso inutilmente violente. Le audiocassette riproducono soltanto la voce della madre, alla televisione si guardano soltanto i video girati dalla famiglia. È il loro modo di proteggerli e, soprattutto, di controllarli. Non c’è posto in cui andare se gli aerei non sono altro che strani oggetti volanti che cadono in giardino sotto forma di giocattoli, non c’è spazio per le passioni se il sesso non è che un atto meccanico da espletare regolarmente – per il figlio maschio – con una donna pagata a buon prezzo, non c’è curiosità di lasciare il dentro se il fuori è raccontato come pieno di pericoli e di terrore.
Riscrivere la realtà
«Volete sentire cantare vostro nonno?», chiede il padre ai figli. «Sì!». Il padre si toglie la giacca, sfila un vinile dalla pellicola e lo mette sul giradischi. Posiziona la puntina sulla traccia e si siede, a mani incrociate. Partono le prime note di contrabbasso di Fly Me to the Moon con la voce di Frank Sinatra. Il padre le traduce per loro, come fossero le parole del nonno.
Fly me to the moon
Il papà ci vuole bene
And let me swing among those stars
La mamma ci vuole bene
Let me see what spring is like on
Noi a loro vogliamo bene? Sì, gli vogliamo bene
Jupiter and Mars
Voglio bene ai miei fratelli…
In other words
…perché anche loro mi vogliono bene
Hold my hand
La primavera riempie la mia casa
In other words darling kiss me
La primavera inonda il mio piccolo cuore
Fill my heart with song
I miei genitori sono orgogliosi di me
And let me sing for ever more
Perché mi impegno al massimo
You are all I long for
Cerco di fare del mio meglio
All I worship and I adore
Ma proverò sempre a fare di più
In other words please be true
Casa mia sei meravigliosa e ti voglio bene
In other words
Giuro che non ti lascerò mai
I love you
E poi mai
Il controllo del padre e della madre passa da un totale isolamento, ma più che l’alta staccionata che circonda il giardino, che è la loro barriera fisica, è il recinto linguistico a rinchiudere i figli e a circoscrivere il loro mondo. A soffocarli non è l’assenza di grandi spazi corporei, ma sono piuttosto gli angusti spazi semantici della casa, perché è con le parole che i genitori riscrivono la loro realtà, deformandola per escludere ogni tensione verso l’esterno. Non è un caso che le parole con cui si apre il film, esempi di libertà e di orizzonte come “mare” e “autostrada”, vengano risemantizzate annullando la loro dimensione dinamica. Così l’orizzonte del mare si trasforma nella staticità di una poltrona, la dimensione avventurosa dell’escursione si fa bidimensionale, schiacciata nella forma di un duro materiale per pavimenti, del dinamismo dell’autostrada resta soltanto il vento.
«In Dogtooth eravamo interessati a indagare quanto si possa distorcere la percezione umana del mondo», ha detto in un’intervista Lanthimos, regista e autore del film. La prigione dorata della sua pellicola ricorda The Truman Show, dove i demiurghi del mondo televisivo abitato da Truman tenevano rinchiuso il protagonista nell’illusione di felicità di un’isola per filmarlo e darlo in pasto al pubblico: lì, l’orizzonte del mare non si annullava semanticamente, ma connotandolo di paura e di dolore, tingendolo del ricordo doloroso della morte di un padre scomparso tra i flutti. E così ogni volta che Truman si avvicinava al mare pensando di avventurarvisi scoppiava una tempesta, il mare si increspava, si alzava un vento molto forte (o, come direbbero i protagonisti di Dogtooth, un’autostrada).
Un meccanismo securitario analogo a quello raccontato in The Village, più vicino al film di Lanthimos nel mettere in scena l’idea distorta di educazione dei figli, in cui il mondo dei protagonisti ha i confini del bosco che circonda il villaggio, un bosco infestato da violente creature soprannaturali da ingraziarsi periodicamente con tributi di carne. In Dogtooh però, oltre i limiti della casa, non c’è altro che il soporifero silenzio dell’arida campagna greca: le tempeste e i mostri vivono nelle teste dei figli senza nome, abitanti di un’altra realtà plasmata da una lingua che riscrive parole e significati.
Animali in gabbia
Il figlio maschio è in giardino per fare ginnastica quando a un tratto, di fronte a sé, vede qualcosa che lo terrorizza. Per un attimo le piante nascondono all’occhio dello spettatore le fattezze di questa creatura spaventosa, poi Lanthimos svela il mostro: un dolce gattino bianco e nero che fissa il figlio mentre lui indietreggia lentamente, terrorizzato, e scappa via con piccoli passi grotteschi. Dentro casa, al riparo dal pericolo esterno, le due sorelle si abbracciano in preda alla paura. Il figlio torna con delle lunghe cesoie, si avvicina lentamente e poi, di colpo, si avventa sul gatto e lo trafigge.
«L’animale che ci minaccia è un gatto», dice il padre di fronte alla famiglia schierata, come fosse un generale che prepara un plotone alla battaglia. «L’animale più pericoloso che ci sia. Mangia carne. La carne dei bambini in particolare. Dopo aver lacerato le sue vittime con i suoi artigli le divora con le sue zanne acuminate. Prima la faccia, poi l’intero corpo della vittima. Se resterete all’interno, sarete al sicuro. Dobbiamo essere pronti nel caso invada la casa o il giardino». La madre, il figlio e le due figlie, allineati in ginocchio davanti al generale, cominciano ad abbaiare per esercitarsi a combattere il gatto.
C’è un’analogia molto diretta nel film, quando il padre va a trovare un cane che sta facendo addestrare e l’addestratore gli spiega, con una pacatezza incontestabile, che l’educazione dell’animale è lunga e ha bisogno di essere completata in tutte le sue fasi, prima che possa lasciare la sua gabbia. Come il cane è instradato in un percorso di cui non si sembra vedere la fine, così i figli sono sottoposti all’addestramento dei genitori che li fanno saltare e correre, giocare e abbaiare a comando, in vista di una liberazione che non avverrà mai. A meno che i cani di Dogtooth non prendano coscienza della loro condizione di prigionieri.
Lo fanno attraverso Christina, la guardia di sicurezza dell’azienda in cui lavora il padre – ed è significativo che lei sia l’unico personaggio del film ad avere un nome, e quindi un’identità – che viene pagata per andare a letto col figlio maschio. Agente esterno introdotto nell’ambiente sterile della casa, Christina contamina l’equilibrio precario della famiglia, chiede favori sessuali alle sorelle, regala alcune videocassette di film americani alla maggiore, che le guarda di nascosto, avidamente.
E dalle VHS lei impara un nuovo modo di parlare, quello del mondo esterno. «Se lo fai ancora, ti sventro, troia», dice al fratello dopo una violenza subita. «Lo giuro sulla vita di mia figlia che tu e la tua banda presto scapperete dal quartiere». La maggiore rielabora le parole dei film che vede, lontano dalle dinamiche linguistiche della casa, per costruire una lingua propria – non più dipendente dall’esperienza familiare e dai dettami del padre – che utilizza gli stimoli del mondo esterno per dare nuovi significati alla propria esperienza. Con le videocassette come filtro per comprendere la realtà, finge di colpire le carni crude della macelleria come Sylvester Stallone in Rocky, si immerge in piscina e imita la sequenza dell’attacco dello squalo di Spielberg e a una festa casalinga, accompagnata dalla melodia ellenica di una chitarra, balla con ritmo ossessivo la danza di Flashdance.
Chiamarsi
«Mamma, cos’è un “zombie”?». «Uno zombie è un piccolo fiore giallo». «Mamma, cos’è una “fica”?». «Una fica è una lampada grande. Esempio: la fica si è spenta e la stanza è divenuta tutta buia». In una realtà in cui le parole sono svuotate di senso i film insegnano alla maggiore che l’universo linguistico non è demandato soltanto al vocabolario somministratole dai genitori, che per dare identità ad una cosa bisogna chiamarla e anche le persone possono avere un nome, che anche le persone possono definirsi. Di più, i film la spingono a definire se stessa, a decidere finalmente come si chiama e quindi chi è.
«Voglio che mi chiami Bruce», dice alla sorella.
«Cos’è “Bruce”?».
«Un nome. Quando mi chiamerai “Bruce”, io mi volterò».
In questo mondo opprimente e grottesco, dove lo zombie è un fiore giallo e la fica è una lampada, l’autoconsapevolezza passa da un gesto semplice come uno sguardo e da un atto forte come il nominare. “Bruce!” e la sorella alza la testa nascosta dalle ginocchia. “Bruce!” e la sorella si volta d’improvviso, da un angolo della stanza. Dare un nome è l’inizio della rivoluzione.
Bruce adesso è qualcosa, è qualcuno. A differenza del fratello e della sorella senza nome sa di avere un’identità, e come ha conosciuto sé stessa adesso è pronta per conoscere il mondo, per tentare la fuga dalla gabbia senza aspettare che cada il suo canino. Nella sua visione potente di un mondo distorto che plasma le vite attraverso il linguaggio, Dogtooth è una grande metafora di come la lingua possa rinchiudere gli uomini in una finzione, trasformando la realtà che stanno vivendo: succede nella comunicazione, nella politica, nella vita. Ciò che dice il film è che le parole, più di ogni altra cosa, definiscono i confini del nostro mondo. E che solo le parole possono abbatterli.