Come tradurre in italiano “Il colore viola” di Alice Walker
A quali limiti va spinta la nostra lingua per raccontare in italiano il più famoso romanzo di Alice Walker? Ce lo racconta la traduttrice Andreina Lombardi Bom, per edizioni SUR.
In copertina leggiamo il nome dell'autore o dell'autrice del libro, ma di rado contempliamo il fatto che possiamo leggerlo in italiano solo perché qualcuno lo ha tradotto: chi traduce è un secondo autore, ma resta nell'ombra. Ed è un peccato perché proprio nella sua opera la nostra lingua fa meglio i conti con le altre — e mostra i suoi tratti più caratteristici, i suoi profili unici.
In collaborazione con editori amici, abbiamo deciso di proporvi alcuni libri particolarmente gagliardi (con un'offerta d'acquisto riservata!), facendoci raccontare da chi li ha tradotti quali sono i limiti a cui hanno dovuto spingere la nostra lingua per raccontarli in italiano.
Iniziamo con Andreina Lombardi Bom, che ci racconta come è che ha tradotto il libro più famoso di Alice Walker, "Il colore viola" (edizioni SUR), ambientato nel sud segregazionista degli Stati Uniti d'America, un magnifico romanzo epistolare che scende in profondità come pochi nel nesso che c'è fra l'amare sé stessi e l'amare gli altri (da cui peraltro è tratto l'omonimo film di Spielberg).
A volte per capire come tradurre un libro bisogna arrivare all’ultima pagina. Ne "Il colore viola" di Alice Walker, lo spazio di solito riservato ai ringraziamenti contiene un’unica riga: "I thank everybody in this book for coming – A.W., author and medium". E questa frase, mentre mi preparavo ad affrontare la traduzione di questo romanzo, mi ha colpito per diversi motivi.
Il colore viola è pieno di presenze. A raccontarlo non c’è un narratore unico dal linguaggio più o meno neutro, ma due voci narranti che si esprimono con registri diversi e il cui io linguistico, come quello di ognuno di noi, è costituito dalla loro evoluzione personale, spesso influenzata dai linguaggi con cui vengono a contatto.
La voce principale, quella della protagonista Celie, parla una lingua peculiare anche per il lettore medio americano: una lingua (non un dialetto) oggi conosciuta come Black American English (BAE). È una variante dell’inglese americano reinterpretato dagli antenati schiavi (nel romanzo la schiavitù dista appena un paio di generazioni) che non avevano l’inglese come lingua madre. Al traduttore il BAE richiede un notevole sforzo di interpretazione: è una trascrizione di una lingua soltanto orale, spesso ambigua specialmente nelle forme verbali. E non poteva essere resa in un italiano standard, perché andava evidenziato il contrasto con la lingua della seconda voce narrante: Nettie, la sorella di Celie.
A differenza di Celie, che è semianalfabeta, Nettie ha studiato e ha avuto modo di svilupparsi in un ambiente colto: il suo linguaggio è più elaborato, spesso sofisticato, e subisce un ulteriore adattamento culturale (e linguistico) quando Nettie, in Africa, entra in contatto sia col linguaggio dei nativi che con quello dei colonizzatori. Il romanzo brulica inoltre di una quantità di personaggi, voci diverse che quasi mi sentivo nelle orecchie mentre traducevo: alla fine mi sembrava che, se le avessi udite nella vita reale, le avrei riconosciute all’istante.
E qui torniamo alla frase citata. Se l’autrice era la medium di queste voci, io ero evidentemente la medium della medium. Ma come parlavano queste voci in italiano? Per il linguaggio delle persone colte non era un problema, ma per rendere il BAE dovevo ricreare una “parlata popolare” riconoscibile e al tempo stesso straniante, che sfruttasse la struttura e i ritmi dell’italiano non acculturato. La regionalizzazione (che ci piaccia o no, il lessico personale di ognuno ha sempre un’impronta regionale) era una trappola da evitare: una revisione certosina mi ha aiutato a eliminare i meridionalismi in eccesso che mi venivano naturali; molti sono stati lasciati dov’erano, ma il più sottotraccia possibile.
Ho giocato con la sintassi, smontandola e rimontandola per rendere più vive le intonazioni. Ho scelto le parole anche in base al suono evocativo, che ovviamente in molti casi è personale, ma spero di essere riuscita a renderlo evocativo anche per il lettore. (Il dubbio perpetuo sul proprio lavoro è una caratteristica fondamentale del traduttore.) Ho passato sei mesi a chiedermi: Come direbbe Celie? Come direbbe Shug? Mr.______ userebbe questa espressione? Ho fatto ricerche su frasi e stilemi mutuati da altri contesti: il linguaggio religioso, quello contadino, quello musicale, quello ibrido...
Insomma ho costruito questa traduzione come una delle coperte patchwork cucite dalla protagonista, prendendo frammenti disparati e accostandoli fra loro con l’obiettivo di raggiungere un risultato armonico. Anche l’ultima frase del libro contiene uno di questi frammenti, perché riproduce la formula con cui si chiude una conferenza o un incontro. Al momento di tradurla, ho ripensato a tutte le voci che si erano affollate intorno alla mia tastiera mentre lavoravo e ho unito la mia gratitudine a quella dell’autrice:
«Ringrazio tutti i presenti in questo libro per essere venuti».
— Andreina Lombardi Bom
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