Giustizia
giu-stì-zia
Significato Valore, principio etico per cui si riconosce a ciascuno il suo; applicazione della legge; atto con cui si realizza la giustizia
Etimologia dal latino iustitia, da iustus ‘giusto’, da ius ‘diritto, legge’.
Parola pubblicata il 12 Settembre 2023
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
«È un'ingiustizia, però!»
Come non provare simpatia per l’inconfondibile protesta del pulcino Calimero? E quante volte l’abbiamo detta o pensata anche noi, quella frase! Ma cosa intendiamo esattamente, quando invochiamo la giustizia? Presa alla lettera, la parola ci si sfarina tra le mani: viene dal latino iustitia, derivato di iustus ‘giusto’, a sua volta da ius, iuris ‘diritto, legge’. Quindi, etimologicamente la giustizia non è altro che giustezza, l’essere giusto in quanto conforme alla legge. Ma se la legge consente la discriminazione di chi è piccolo e nero, che giustizia potrebbe mai reclamare Calimero?
La giustizia può essere intesa anche come qualità soggettiva, personale, e in quanto tale nel cristianesimo è una delle ‘virtù cardinali’, definita «volontà costante e ferma di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto». Quella che suscita più discussioni e ragionamenti, però, è ovviamente la giustizia in senso oggettivo, politico: la giustizia retributiva, con cui lo Stato ripartisce beni materiali e immateriali tra i cittadini. In entrambi i casi, comunque, il significato della giustizia pare il medesimo: dare a ciascuno il suo. Semplice, no? Ma qual è ‘il suo’ di ciascuno, appunto? Il fatto è che il termine ‘giustizia’ non ha un contenuto in sé: mentre non si può chiamare ‘libertà’ il mettere una persona in prigione, né dare a qualcuno molto e ad altri poco può definirsi ‘uguaglianza’, la giustizia è un giudizio che dipende dal concetto di ‘bene’ che si adotta: posso ritenere giusti entrambi questi atti se rispondono a principî che ritengo buoni (la sicurezza nel primo caso, il merito nel secondo).
Come se ne esce? Per qualcuno – i formalisti, o positivisti giuridici – non si può: la giustizia è inevitabilmente un concetto vuoto, il cui significato coincide con l’etimo: conforme alla legge. Non esiste una giustizia ‘sostanziale’ alternativa al diritto vigente, se non come sentimento individuale privo di contenuto scientifico. Quando Calimero, quindi, afferma «È un’ingiustizia», in realtà sta solo dicendo «Non mi sta bene», ossia non corrisponde ai miei interessi o ai miei valori. Anche i teorici che adottano un approccio diverso, però, e ritengono che esista una giustizia sostanziale, partono sempre dall’idea di un determinato bene supremo – il piacere, la felicità, l’eccellenza individuale, la libertà, l’uguaglianza – chiamando ‘giustizia’ la massimizzazione di questo bene.
Nel 1971 un docente di filosofia di Harvard, John Rawls, pubblicò A Theory of Justice, un libro dall’intento ambizioso: elaborare una nuova teoria della giustizia, la «giustizia come equità», in cui «il concetto di giusto è prioritario rispetto a quello di bene». Una teoria, cioè, che stabilisca anzitutto delle regole del gioco accettate da tutti, escludendo preliminarmente determinate istanze – ad esempio quelle di chi vuole prevaricare sul prossimo. Per fondare razionalmente questa regola, Rawls escogita un esperimento mentale, immaginando che delle persone si trovino in una ‘posizione originaria’ in cui, obnubilate da un «velo d’ignoranza», sono all’oscuro dei propri interessi e qualità individuali (ricchezza, posizione sociale, capacità ecc.). In questa situazione, secondo lui, senza motivazioni egoistiche a condizionarle, esse sceglierebbero regole che vadano a vantaggio di tutti e non di qualcuno. In particolare, emergerebbero due principî di giustizia fondamentali:
Ogni persona ha un eguale diritto alla più estesa libertà fondamentale compatibilmente con una simile libertà per gli altri.
Le ineguaglianze economiche e sociali (…) sono giuste soltanto se producono benefici compensativi per ciascuno, e in particolare per i membri meno avvantaggiati della società.
Il primo principio, classicamente liberale, non è controverso. Il secondo è, da una parte, eticamente motivato, perché implica un principio di riparazione: «la società deve prestare maggiore attenzione a coloro che sono nati con meno doti o in posizioni sociali meno favorevoli», ossia «riparare i torti dovuti al caso», giacché nessuno ha merito per essere nato intelligente o in una famiglia ricca. Dall’altra, però, è anche un principio razionale, in quanto conforme a una regola della teoria dei giochi e delle decisioni, il maximin, per cui in condizioni di incertezza (com’è quella della ‘posizione originaria’), in certe transazioni l’obiettivo ottimale è massimizzare i guadagni minimi (e, corrispettivamente, minimizzare le perdite massime).
Fantastico: un sistema giusto e razionale allo stesso tempo, che coniuga libertà, uguaglianza e fratellanza. Roba da mettere d’accordo tutti, no? Macché… neppure i suoi colleghi di Harvard, se solo tre anni dopo Robert Nozick, nel suo Anarchia, stato e utopia, ribatteva che «lo stato non può usare il suo apparato coercitivo allo scopo di far sì che alcuni cittadini ne aiutino altri», anche perché «un’entità sociale, il cui bene sopporti qualche sacrificio per il proprio bene, non esiste. Ci sono solo individui, individui differenti, con le loro vite individuali».
Nonostante gli sforzi di Rawls, insomma, ognuno – compreso Calimero, a cui per sua fortuna bastava un lavaggio per riscattarsi – continuerà ad avere la sua idea di giustizia.