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Quel giuda di un traduttore

Eccola, la sfida più complicata che mi son trovato davanti aprendo le Vespe di Aristofane. Come mi sarei dovuto porre? Come hanno fatto i traduttori de I Simpson e di Harry Potter?

Chiunque si sia mai trovato, durante la propria vita, nella condizione di dover tradurre un testo da una lingua a un’altra, comprende l’emozione, il timore, l’ansia da prestazione che immediatamente s’impossessano di mente e animo (perché la traduzione, che piaccia o no, è questione di testa, ma anche di cuore).

Come ridevano nel 422 a.C.

Tralasciando il periodo liceale, ricordo ancora la prima occasione in cui mi son dovuto cimentare seriamente con un testo da tradurre: secondo anno di università, parte dell’esame di letteratura greca consisteva nella preparazione di alcuni testi, tra i quali vi erano, allora, le Vespe di Aristofane. Aristofane fu un commediografo greco che operò a cavallo tra il V e il IV secolo a.C. — ne consiglio la lettura a tutti quelli che, con un senso dell’umorismo un po’ particolare, ridacchiano all’idea di un cane dell’Atene del quinto secolo citato in tribunale per il furto di una salsiccia.

Trattandosi di una commedia, il suo scopo è ovviamente suscitare il riso; e finché si ha la fortuna di poterla leggere nella sua lingua originale e comprenderla nella sua interezza, le risate sorgono per davvero. Ma come far comprendere la vera essenza di quel testo a un lettore che non conosce il greco antico? Eccola, la sfida più complicata che mi son trovato davanti aprendo le Vespe di Aristofane. Come mi sarei dovuto porre? Avrei forse dovuto fare l’archeologo del testo, prendendo le parole di Aristofane e rivestendole con la nostra lingua, sterilizzandole cercando di strappare un sorriso spiegando le sue battute pungenti in una nota a piè di pagina? Oppure, fantasiosamente, mi sarei dovuto improvvisare traduttor-cabarettista, permettendo a chiunque di ridere delle parole del vecchio ateniese cercando di farne uno sketch e usando, come sistema di riferimento, i nostri mondo e ironia?

Non è un problema dappoco: mettete il caso che fra dieci anni viene inventata la macchina del tempo, e qualcuno torna indietro fino al quinto secolo; per un motivo o per un altro, si trova nella condizione di dover dire al caro Aristofane che il proprio compagno di viaggio è un taccagno, e per fare ciò prova a tradurre letteralmente nel dialetto di Aristofane che l’amico c’ha i granchi in tasca. Aristofane certamente non capirebbe, ma una volta compreso il concetto, risponderebbe probabilmente dicendo: «Ah, ma quindi intendi che è uno che spacca il cumino e gratta il cardamomo!».

No, la traduzione non è sicuramente cosa facile. Si sa: traduttore, ma anche un po’ traditore. È impossibile non snaturare, almeno in minima parte, il testo di partenza (orale o scritto che sia).

Lo strano caso del giardiniere Willie

Prendiamo come esempio i Simpson. Tutti conosciamo la serie animata. A molti piace, a molti altri no, ma è davvero improbabile che qualcuno non abbia idea di chi siano i gialli di Springfield. Willie, il giardiniere della scuola elementare nella serie, è scozzese. O meglio: in inglese è scozzese, ma in italiano è sardo. Nel mondo anglofono, la Scozia è percepita come isolata, lontana, quasi un mondo altro, e stesso pensiero si ha spesso riguardo alla Sardegna da noi in Italia (inoltre, come sembrerebbe esser stato confermato dal creatore dei Simpson in persona in un’intervista, l’accento scozzese di Willie potrebbe essere dovuto all’idea di durezza e ruvidità che caratterizza il personaggio; queste caratteristiche, di conseguenza, sarebbero state individuate nel panorama degli accenti italiani nell’accento sardo).

Ecco che entra in gioco il traduttore: le brughiere della Scozia (moors of Scotland) di cui parla un avvocato in una puntata della dodicesima stagione — cercando in tutti i modi di connettere Willie a un furto d’auto — diventano, in Italia, i monti della Gallura; quando parla delle sue origini in un’altra puntata, stavolta nella ventitreesima stagione, Willie dice di non essere né di Edimburgo, né di Glasgow, ma di Kirkwall (I’m not from Edinburgh! I’m also not from Glasgow! I’m from Kirkwall in Orkney!), tutti luoghi della Scozia, ma quando portato in Italia Willie non è di Nuoro, e nemmeno di Sassari, ma di Mogorella nell’oristanese; infine (e in questo caso i traduttori hanno forse fatto uno scivolone), un detective privato si rivolge a Willie dicendogli che è identico allo strangolatore seriale di Aberdeen — cittadina del nord-est della Scozia: in questo caso, inspiegabilmente, Willie rimane scozzese anche da noi.

Perché la traduzione è così: non è facile trapiantare un’idea, un concetto, un personaggio da una lingua all’altra, e inevitabilmente, a volte, scappa l’errore.

Grifondoro, Serpeverde, Tassorosso e Pecoranera

Per rimanere nell’ambito della cultura popolare, nota a quasi tutti è anche la saga di Harry Potter. Molto probabilmente, chiunque ne abbia letto la prima traduzione — me compreso — la ricorda associandole, nella mente, un catulliano odi et amo. Essa è stata rivista negli ultimi anni: c’è chi, per motivi affettivi, non è d’accordo con le scelte che son state prese, ma c’è anche chi trova nella nuova traduzione la soluzione a quelli che, inevitabilmente, son da considerarsi errori del primo tentativo di travaso del mago anglosassone in Italia.

Tralasciando per il momento le scelte fatte per quanto riguarda la traduzione dei nomi propri — talvolta (presumibilmente) ponderate e motivate, talvolta inspiegabili, come la strana ridenominazione del rospo Trevor che diventa semplicemente Oscar — il primo, grosso problema è stato il nome di una delle quattro casate della scuola di magia: Ravenclaw, che vittima di uno strano incantesimo sconosciuto anche alla Rowling — l’autrice della saga — è divenuto Pecoranera, che tra gli altri fieri nomi (Grifondoro, Tassorosso e Serpeverde) stona effettivamente un pochino. Raven significa corvo, claw artiglio; perché, dunque, Pecoranera? In lingua originale i quattro fondatori della scuola di magia e stregoneria di Hogwarts si chiamano Godric Gryffindor, Helga Hufflepuff, Rowena Ravenclaw e Salazar Slytherin: salta subito all’occhio — e all’orecchio — la consonanza che caratterizza ciascuna coppia nome-cognome.

S’è deciso in Italia, probabilmente per via della peculiarità del nome Rowena per un parlante italiano, di modificarlo in Priscilla, e per mantenere la consonanza, la casata è diventata Pecoranera. Una trasfigurazione da far impallidire pure la professoressa McGranitt (o McGonagall, come nell’originale e nella nuova traduzione). Nei film la questione è stata risolta con un vittorughiano Cosetta Corvonero, mentre nei libri c’è stata indecisione — e confusione, per i lettori — fino alla definitiva Priscilla Corvonero. Va bene, è sparita la consonanza, ma almeno i poveri studenti non son passati dall’acume d’un fiero corvo alla docilità della merino.

A pensarci bene, qualche problema in questo caso ci stava. Si tratta di un nome proprio, e creare in italiano delle traduzioni evocative come gli originali inglesi non dev’essere stato un gioco da ragazzi. Certo, non ci si spiega la pecora, ma nessun giudizio esagerato.

Se in quel caso, però, entravano in gioco la fantasia e la maestria di chi si è occupato della traduzione, in un altro caso la soggettività non c’entra: grossi problemi ha creato un'altra traduzione confusionaria, che stavolta è da additare proprio come errore. Harry Potter e l’Ordine della Fenice, capitolo VI: i giovani protagonisti stanno cercando di aprire a heavy locket that none of them could open. Traduzione: un pesante lucchetto che nessuno di loro riuscì ad aprire. Ma no! Il locket mica è il lucchetto (quello è il lock)! Si parlava di un grosso medaglione che, tra l’altro, sarebbe stato fondamentale nei due libri successivi. Inevitabilmente, il lettore italiano, nel momento in cui legge di un medaglione che i personaggi riconoscono dalla scena appena citata, non può fare a meno di porsi delle domande. No, lettore, non hai avuto un’amnesia: qualcuno ha fatto confusione.

Harry Potter e le caricature indiane

Mettendo da parte questi esempi-limite, che sfociano, come si è detto, nel vero e proprio errore, è il caso di richiamare, come promesso precedentemente e per chiudere il discorso su Harry Potter, la questione dei nomi propri. Gli esempi da proporre sarebbero tantissimi, ma ho deciso di selezionarne uno, quello che ritengo essere il più eloquente per quanto riguarda la questione del triangolo traduzione-tradizione-tradimento: in Italia Parvati Patil, studentessa di Hogwarts dalle origini indiane, è andata dal prefetto e, in seguito a una fastidiosamente lunga trafila burocratica, ha cambiato nome in Calì.

Quando lessi per la prima volta in italiano i libri, ovviamente non feci caso alla questione: mancavano in me la sensibilità linguistica e le conoscenze che ora, invece, mi permettono di essere fortemente critico al riguardo. Innanzitutto, salta all’occhio la triste banalizzazione: il cambio di nome non è dettato da necessità di pronuncia (l’unico nesso consonantico presente in Parvati è presente anche in parole comunissime, come larva, cervo, parvo, curva), bensì da un mero fatto culturale. Si è deciso di prendere casualmente — e questo avverbio, che può sembrare eccessivamente giudizioso, verrà motivato tra poco — un nome legato alla cultura indiana e noto al pubblico italiano (si pensi alla dea Kalì dei romanzi d’avventura di Emilio Salgari, che proprio durante il boom di Harry Potter in Italia erano noti anche al pubblico più giovane grazie alle trasposizioni in film, serie tv e cartoni animati) e usarlo per indicare quel personaggio lì, l’Indiana.

L’asprezza del mio giudizio deriva dal palese esotismo — da intendersi in senso negativo — su cui è basata la scelta. Infine, la motivazione del casualmente di poco fa: Parvatī (in devanāgar­­­­­­­­­ī पर्वती) è una manifestazione benevola della Dea (Dev­­­ī, देवी) e simboleggia la delicatezza e la benevolenza del concetto di moglie e madre, mentre ­­­­K­ālī (काली) è invece simbolo di una femminilità distruttiva e dirompente, di una sessualità intensa e travolgente. Insomma, si è preso un personaggio e inconsapevolmente, sotto la bandiera di una banalizzazione poco attenta all’alieno, lo si è capovolto. Quanta coscienza vi sia stata nella scelta del nome da parte dell’autrice (la Rowling ha chiamato così Parvati con un chiaro intento? Ha semplicemente scelto il nome di una sua conoscente indiana, senza pensarci troppo? Ha banalmente aperto una lista di nomi indiani e ha scelto quello che più le piaceva?), quanta da parte della traduttrice (fino a che punto ha colto, volontario o involontario riferimento culturale?) e quanta nei lettori (chi, leggendo di Parvati/Calì, ha pensato alle divinità, oppure a Sandokan e alla “dea del male Kalì”?), non è dato saperlo. Fatto sta che nelle nuove traduzioni dei romanzi di Harry Potter, Calì è tornata Parvati.


La traduzione, quindi, è roba davvero complessa — e non a caso la traduzione, soprattutto quella letteraria, è da studiarsi, per farla davvero bene (per quanto la storia degli studi di traduzione letteraria qui da noi sia, ufficialmente, molto breve). È un mondo di rischi: il rischio di sbagliare; il rischio di fare scelte che magari non sono proprio sbagliate, ma che suscitano inevitabilmente dei «mah» da parte del lettore; il rischio di trovarsi nella difficile posizione di chi, per rendere un testo comprensibile nella lingua d’arrivo, deve osare e porsi, inevitabilmente, in contrasto col testo di partenza, finendo per trovarsi nella saccoccia trenta denari in più e il peso d’essere stato, volente o nolente, un traduttore-traditore.

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