“Il primo re” parla di sé

Un film che racconta il mito fondativo di Romolo e Remo ma insegue il realismo, ricorrendo a uno strumento straordinario: una lingua di cui si è parlato come ‘protolatino’, e che invece è qualcos’altro.

Romolo e Remo sono schiavi della città di Alba. Insieme ad altri prigionieri, riescono a liberarsi e a trovare scampo in una foresta maledetta, ma durante la fuga Romolo viene gravemente ferito. Al calare del sole Remo va a caccia per sfamare il fratello minore, la cui vita è minacciata anche dai compagni di sventura che vogliono punirlo per il sacrilegio di cui si è macchiato: Romolo ha rubato il fuoco sacro e ha toccato la sua sacerdotessa. All’alba, contro ogni aspettativa, Remo ritorna con la preda, salvando il fratello e i compagni, e prende allora la parola. Sotto gli sguardi entusiasti e attoniti dei presenti, in un crescendo che culmina nel rombo di un tuono, dà inizio alla sua leggenda.

 

Preparatevi a partire. Il favore degli dei è con noi. Guardatemi. Il fuoco ha protetto mio fratello. Mio fratello vive. Io sono sopravvissuto alla furia del Tevere. Io vi ho salvati dalla morte di Alba. Io vi ho sfamati. Voi non siete maledetti. Non siete soli. […] Guardate il vostro re. Non siete più bestie. Siete uniti, siete un gruppo, che presto avrà la sua terra. Chi vuole allontanarsi lo faccia ora. Chi vuole sfidarmi di nuovo lo faccia ora. Chi resta e si sottomette sarà i miei occhi quando non ci sono, le mie orecchie quando dormo, il mio cuore se mi attaccano in battaglia. Saremo noi la paura, saremo noi il terrore che non fa dormire la notte. Noi sopravvivremo, oggi, domani, e fino al giorno in cui siederemo accanto agli Dei.

Dentro al film

Il primo discorso di Remo è uno dei pochi momenti de Il primo re in cui si parla. I numerosi silenzi del film, tuttavia, non contano molto: rappresentano il vuoto misterioso e terrificante della natura intrisa di divino, che però viene sfidato e riempito dalle parole dei personaggi. Perché, infatti, si parla ne Il primo re? Si parla per invocare (gli dei), comandare e maledire (gli uomini), definire lo spazio (divino, nostro, nemico). Quando Remo mette a segno la sua prima vittoria conquistando il villaggio dei Velienses, la sacerdotessa parla per rivelare il destino attraverso una profezia: uno dei due fratelli dovrà morire. Ma si parla anche per muovere, persuadere, trasformare gli animi, costruire legami, deliberare.

È questo linguaggio, sicuramente performativo e profondamente politico, quello privilegiato da Remo. Se ne serve nel suo discorso dopo la battuta di caccia, per farsi riconoscere come re, e se ne servirà più tardi per negare ogni verità e autorità che non sia la sua, comprese quelle della profezia e degli dèi. Ma anche Romolo conosce questo linguaggio e lo usa con fiducia crescente: alla fine, quando protegge i Velienses da un Remo ormai fuori controllo, dichiara che essi non sono «servi, ma alleati». Il modo in cui Romolo sceglie di gestire il linguaggio del politico manifesta il valore superiore della vita associata, libera e in armonia con il divino, di contro a ciò che ne sta fuori: la solitudine maledetta, terrorizzata e schiava. In altre parole, è il linguaggio con cui si fonda, su una strada accidentata, una società giusta. Una società suggellata proprio dalla «parola scolpita» – ROMA – di fronte a cui tremeranno tutti coloro che verranno alla città.

In questo tremore sta tutta l’ambiguità politica e umana de Il primo re, che poi è naturale in un mito, sempre in trasformazione per forme e contenuti e sempre soggetto a molteplici letture. Si trema di umiltà di fronte al divino, di rispetto di fronte alla grandezza umana, ma anche di paura di fronte al potere di chi – come ricorda la citazione da Plutarco posta in chiusura – «non avrà pietà di nessuno». Questa è l’ambiguità di Romolo. È il primo a cercarsi una maledizione quando tocca la sacerdotessa e ruba il fuoco sacro all’inizio del film, poi si guadagna un alone di pietas (forzando, diremmo santità) quando concede ai Velienses di seppellire l’anziano sgozzato da Remo, infine si afferma come difensore e detentore del potere religioso – fondamento della società umana – quando dice che nessuno può entrare nello spazio sacro delimitato dai fuochi, perché lui, che ha portato il fuoco, lo ha deciso. È la classica storia, tra le preferite dall’Illuminismo, di un grand’uomo che è un po’ vero profeta (nel senso che ci crede) e un po’ un impostore che volge le superstizioni comuni a suo vantaggio.

Sta tutta in quest’ambiguità la forza di Romolo, in un’accurata selezione di ciò che può o non può essere detto o fatto e per conto di chi (gli uomini, il divino). Il personaggio di Remo si evolve in modo più lineare, da un distaccato rispetto del divino all’ateismo, passando dal momento in cui, alla domanda della sacerdotessa «sei tu il Dio?», egli risponde con un raro silenzio. Remo è debole perché mette tutto in chiaro e porta tutto su di sé, la verità, la divinità, il potere di vita e di morte. Il suo è un eccesso di atti ma soprattutto di parole, che al tempo stesso nega agli altri: «guardate il vostro re»; «tu farai ciò che io farò»; «taci»; «in quel cerchio non c’è nessun dio». Quando Romolo fonda Roma alla fine del film, ciò che conserva di suo fratello sono gli atti – il sangue versato – e non le parole: queste saranno solo le sue, misurate e manipolatrici.

Intorno al film

Alla sua uscita il 31 gennaio 2019, Il primo re di Matteo Rovere fece molto discutere. La vicenda di Romolo e Remo raccontata dal film era un territorio inesplorato nel cinema di genere e nella serialità televisiva. Al posto della tarda repubblica o dell’alto impero, narrati nella Rome HBO o ne Il gladiatore di Ridley Scott, Rovere aveva scelto il Lazio dell’ottavo secolo a.C. A quest’originalità di fondo corrispondevano una solidità produttiva, un impegno tecnico, uno sforzo di creazione artistica che la stampa di settore ha sottolineato e che il pubblico ha sentito come inediti nel panorama nazionale. Per questo, su Il primo re si è rapidamente addensata la leggenda della sua produzione.

Una lunga preparazione scientifica, la recitazione in una lingua arcaica, troupe e cast immersi nel fango per settimane, il tutto girato con luci naturali. Pare che il cervo ucciso da Remo, Matteo Rovere l’abbia fatto venire dalla Romania perché quella specie vagava nel Latium vetus ventotto secoli fa. Qui c’è il Kubrick di Barry Lyndon, il Mel Gibson di Apocalypto, il Werner Herzog di Fitzcarraldo. Questa leggenda produttiva, che dipende da interviste e recensioni oltre che da un testo che potremmo definire fondativo – il pressbook rilasciato dalla casa di distribuzione – si è intrecciata a due discorsi connessi: quello sul valore storico-documentario del film e quello sulla sua attualità politica.

Nel pressbook Rovere dichiara la centralità del realismo immersivo nella sua poetica. Perciò ha lavorato «con archeologici e storici, che insieme ai linguisti e ai semiologi hanno supportato il progetto». Giustamente, Rovere non presenta l’accuratezza storica come valore in sé, ma come sostanza del realismo, inteso per l’approccio narrativo che è. Il coinvolgimento degli esperti infatti è funzionale a «un’impostazione estetica e scenografica» che non può non essere autoriale. Del resto, spiega Rovere a Esquire, un film interessante è un film che parla al presente e la storia è «portatrice di senso e di racconto»: quindi, non un deposito di oggetti da riprodurre. Al tempo stesso, però, secondo il pressbook, il film dovrebbe essere «coerente con il periodo raccontato». Accanto alla storia-come-racconto, articolata nella libertà compositiva e interpretativa tipica del mito, c’è il racconto di un momento reale. Le oneste dichiarazioni di Rovere nascondono un’ambiguità che emerge sul piano del valore storico-documentario del film quando affrontiamo il tema degli “esperti”.

C’è una formula magica che si trova nel pressbook, e da lì in ogni commento successivo, che evoca i «linguisti e semiologi» o «semiologi dell’Università La Sapienza» responsabili della lingua del film. Sembra però che a lavorare sul “protolatino”, insieme alla troupe e al cast, sia stata una persona sola: Luca Alfieri, oggi professore all’Università Telematica Guglielmo Marconi. Glottologo e indoeuropeista, Alfieri racconta la sua esperienza nell’articolo pubblicato sul n. 5 (2019) della rivista scientifica online ClassicoContemporaneo.eu, sede di un’approfondita discussione su Il primo re.

Alfieri parla sempre al singolare quando descrive il suo (efficacissimo) lavoro sul copione e racconta una storia molto più vivace rispetto alla seriosità dei plurali di maestà del pressbook. Rovere, vecchio compagno di scuola, lo chiama dal nulla per proporgli la sua idea e dopo vari tentativi di ricostruzione di una lingua probabile, Alfieri abbraccia l’effetto percettivo come punto di riferimento. Decide quindi di «sfruttare la linguistica storica latina e indoeuropea per procedere ad un camouflage letterario in piena regola […] Potevo, insomma, creare una lingua inventata; ma inventata e philologia, e non ex arbitrio». E aggiunge:

Certo il risultato finale di questa opera di creatività filologica, come la definì poi il regista, era filologicamente inaccettabile: si trattava di una lingua che peccava contro Saussure e il concetto stesso di “cronia”. Avevo schiacciato su un unico piano temporale degli elementi che, pur se singolarmente accettabili, provenivano da fasi cronologiche molto diverse tra loro. In sostanza, avevo inventato una lingua andando indietro nel tempo, ma restando sempre fermo nello spazio […]

Con buona pace dei pasdaran della veridicità storica nel cinema, è con qualche forzatura e con l’invenzione (documentata) che si raggiunge il realismo: l’importante è non dirlo. Infatti, nella sezione sulla lingua del pressbook il ruolo chiave dell’invenzione praticamente scompare.

Invece, gli archeologi che hanno collaborato al film riconoscono un’«estrema accuratezza scientifica» nell’utilizzo della lingua arcaica (che però, abbiamo visto, è “inventata”) oltre che nel materiale di scena. Il gruppo, che ha firmato una sezione del pressbook sulla «ricostruzione storica», è guidato dalla docente di Etruscologia e antichità dei popoli italici dell’Università di Roma “Tor Vergata”, Maria Donatella Gentili, scomparsa di recente, e composto da giovani ricercatori raramente citati dalla stampa: Alfredo Moraci, Damiano Portarena ed Emanuela Rascaglia. Secondo loro, «fedeli alle ricostruzioni archeologiche» sono le capanne dei villaggi, mentre altri elementi sociali e culturali sono «coerent[i] al racconto di alcune fonti antiche» ed è antropologicamente «coerente» la rappresentazione caotica e ferina delle origini di Roma.

Qui non siamo né nel registro della verosimiglianza né in quello della veridicità, ma si certifica a) fedeltà alla documentazione archeologica, b) fedeltà alle ricostruzioni archeologiche, c) fedeltà a una parte della documentazione letteraria, d) adesione ad una moderna ricostruzione storico-antropologica basata sulle fonti. Il registro utilizzato rinvia a pratiche e discorsi accademici che di regola non appartengono all’universo filmico. Tuttavia, la giustapposizione dei testi all’interno del pressbook e la continua invocazione degli esperti da parte di regista, produttori, giornalisti e recensori determina una contaminazione il cui effetto è rivestire il film, agli occhi del pubblico, dell’autorità scientifica normalmente detenuta dall’accademia.

Ma ci importa che Il primo re sia storicamente veridico, cioè che riproduca alla lettera le fonti disponibili sulle origini di Roma? L’importante, qui, è il messaggio veicolato dai vari pezzi del discorso (gli “esperti” di Rovere e la certificazione degli studiosi): il film va apprezzato anche o soprattutto per il suo realismo, fondato su un’attenzione sincera e su ricerche serie. Chi, magari fuori dall’accademia, insiste sul registro della veridicità, o addirittura della verità, sta facendo un altro discorso, per rivendicare un’autorità e segnalare un’identità che in alcuni casi ha chiare tinte politiche. Connesso al discorso sull’accuratezza storica del film, infatti, è quello sulla sua attualità politica.

Pochi giorni dopo l’uscita del film – siamo all’indomani dell’approvazione del primo Decreto Sicurezza – sul Fatto quotidiano compare la stroncatura dell’ex direttore dell’Unità Furio Colombo: il film sarebbe un’apologia di un fascismo eterno alla Umberto Eco. La stroncatura è subito derubricata a «delirio» dal direttore responsabile del Primato nazionale, Adriano Scianca. Questo rivendica in un colpo solo autorità storica e violenza politica («Roma non è stata fondata indicendo le primarie») e accusa Colombo di «forzatura antistorica» per aver dato del fascista all’«eroe fondatore della nostra civiltà». Lo scontro è politico, ma Scianca sceglie comunque di chiamare in causa la storia, anche se in questo caso si tocca lo spirito e non la lettera. Colombo viene rintuzzato anche da sinistra, quando la redazione di Lettera43 legge le gesta di Romolo nella chiave dell’«accoglienza» e dell’«integrazione». L’anonimo autore, accettando la linea di fonti anch’esse inserite in un ben preciso discorso politico, cita tra l’altro il passo degli Annali di Tacito in cui l’imperatore Claudio loda la disponibilità delle istituzioni a integrare le élite di popoli vicini e lontani. Ma se Remo è di destra, allora Romolo è di sinistra? O il contrario? E Rovere? Facile a dirsi: basta scegliere le parole giuste.

Come per le parole di Romolo nel film, è l’ambiguità nascosta sotto un linguaggio ben selezionato a fare la forza del discorso intorno a Il primo re. Contaminando il lessico del realismo cinematografico con quello dell’accuratezza scientifica accademica, intorno al film di Rovere si è creata un’illusione di veridicità storica. Sul piano della lingua, questo effetto viene amplificato dalla confusione tra la scientificità del metodo con cui la lingua è stata inventata e la scientificità del risultato finale. Questa distinzione, molto chiara nell’articolo di Alfieri, svanisce nel più ampio discorso sul film, forse anche perché persino gli esperti omettono nel pressbook il fatto che il “protolatino” sia più inventato che ricostruito.

Questa ambiguità, toccando il nervo più sensibile della connessione tra film e spettatore – la lingua degli attori – probabilmente ha contribuito più di tutto a convincere il pubblico di trovarsi nel vero Lazio dell’ottavo secolo a.C. e non (ad esempio) in un Medioevo monicelliano alla Brancaleone. Invece l’attualizzazione politica del film forza gli interlocutori dei vari campi a svestirsi di ogni ambiguità, facendo equivalere la storia alle proprie parole – e a quelle soltanto. In questo caso, la storia non è l’immagine ricostruita di un passato reale, ma un’altra formula magica che dovrebbe dare la forza superiore e universale della verità ad ogni argomento, e che invece è tanto più facile demistificare come strumento terreno di lotta politica quanto più la vediamo invocata da tutte le parti in causa. Certe cose, come sanno bene il Romolo di Rovere e Rovere stesso, è bene tacerle e al limite farle dire agli dèi (o ai professori universitari).

Il re eterno

La storia di Romolo e Remo è quella della fondazione di una città, quindi della creazione di una società, un potere e una cultura – quelli di Roma e del suo impero: una realtà che verosimilmente non ha mai cessato di influenzare tutto quanto si è detto e fatto in politica e in molti altri campi in questa nostra parte di mondo. Ma questa influenza non è unilaterale; questo retaggio non è monolitico. Roma è sempre stata esempio da seguire o rischio da scongiurare e la sua storia è sempre stata quella di un conflitto tra parti avverse, tra diverse visioni della città. Questo conflitto è sempre stato veicolato dalla parola ancor prima che dalla spada e continua ad esserlo. La sopravvivenza di Roma, anche in questo caso, sta in un’ambiguità che è sinonimo di versatilità. Nel riprendere il mito fondativo di questo conflitto, Il primo re non è stato solo in grado di raccontarne gli aspetti che più ci toccano da vicino mostrando quanto sia fondamentale, per la cosa pubblica, un’accurata gestione della parola, nel costruire un discorso su sé stesso, ha riaperto anche vecchi capitoli dell’eterno dibattito sul senso politico di Roma, ricordando quanto pesino le parole che scegliamo per raccontare la sua storia.