SignificatoRumoroso; che fa scalpore; straordinario
Etimologia voce dotta recuperata dal latino tardo clamorosus, derivato di clamor ‘schiamazzo, grido, urlo’, a sua volta dal verbo clamare ‘rumoreggiare, gridare’.
La parabola di questo aggettivo — che appartiene a un gradevolissimo registro di parole eleganti ma correnti — è splendida: come spesso accade, si sta liberando della sua veste fisica per esistere solo in una dimensione figurata.
Infatti, se ancora associamo al clamore uno schiamazzo, un frastuono (pensiamo al clamore che si ode a finestre aperte durante la partita), difficilmente quando parliamo di una festa clamorosa, di una moto clamorosa, di una lite clamorosa, intendiamo appuntare la nostra attenzione precisamente sulla qualità del rumoroso. Stiamo già passando a un significato ulteriore, che ci chiede di comprendere la fibra interna del clamore.
Il latino clamor deriva da clamare — un rumoreggiare tutto umano, da cui scaturiscono anche il chiamare, il proclamare, l’acclamare. È quindi strettamente legato a una dimensione di gruppo, perfino emozionale. Il clamor si leva in momenti di festa, di ostilità, di spettacolo, di cerimonie, di consessi pubblici: c’è popolo, nel clamore.
È così che il clamoroso, oltre ad avere il senso proprio del rumoroso, matura un tratto da psicologia della folla. Infatti — recuperato dal latino tardo clamorosus in epoca anch’essa tarda, parliamo della seconda metà del Settecento — si afferma come qualità di chi o ciò che fa scalpore, fa clamore, e quindi che fa schiamazzare, rumoreggiare, parlare, discutere, vociare.
La festa clamorosa è una festa di cui si racconta, riparla, discute e che rinfocola il desiderio espresso di altre feste così, la moto clamorosa è quella che attira l’attenzione e fa mormorare o gridare la gente intorno, e la lite clamorosa non passa certo inosservata. La dimensione del clamoroso è corale; ma se vogliamo, questo significato si può per distillare nello straordinario, nel pazzesco — tagliato come ciò che suscita scalpore.
La parabola di questo aggettivo — che appartiene a un gradevolissimo registro di parole eleganti ma correnti — è splendida: come spesso accade, si sta liberando della sua veste fisica per esistere solo in una dimensione figurata.
Infatti, se ancora associamo al clamore uno schiamazzo, un frastuono (pensiamo al clamore che si ode a finestre aperte durante la partita), difficilmente quando parliamo di una festa clamorosa, di una moto clamorosa, di una lite clamorosa, intendiamo appuntare la nostra attenzione precisamente sulla qualità del rumoroso. Stiamo già passando a un significato ulteriore, che ci chiede di comprendere la fibra interna del clamore.
Il latino clamor deriva da clamare — un rumoreggiare tutto umano, da cui scaturiscono anche il chiamare, il proclamare, l’acclamare. È quindi strettamente legato a una dimensione di gruppo, perfino emozionale. Il clamor si leva in momenti di festa, di ostilità, di spettacolo, di cerimonie, di consessi pubblici: c’è popolo, nel clamore.
È così che il clamoroso, oltre ad avere il senso proprio del rumoroso, matura un tratto da psicologia della folla. Infatti — recuperato dal latino tardo clamorosus in epoca anch’essa tarda, parliamo della seconda metà del Settecento — si afferma come qualità di chi o ciò che fa scalpore, fa clamore, e quindi che fa schiamazzare, rumoreggiare, parlare, discutere, vociare.
La festa clamorosa è una festa di cui si racconta, riparla, discute e che rinfocola il desiderio espresso di altre feste così, la moto clamorosa è quella che attira l’attenzione e fa mormorare o gridare la gente intorno, e la lite clamorosa non passa certo inosservata. La dimensione del clamoroso è corale; ma se vogliamo, questo significato si può per distillare nello straordinario, nel pazzesco — tagliato come ciò che suscita scalpore.