Monocorde
mo-no-còr-de
Significato Monotono, che insiste senza variare
Etimologia da monocordo, voce dotta recuperata dal latino tardo monochordos, prestito dal greco monókhordos ‘a una sola corda’, composto da mónos ‘unico, singolo, solo’ e khordé ‘corda, stringa’.
Parola pubblicata il 26 Settembre 2021
Le parole della musica - con Antonella Nigro
La vena musicale percorre con forza l'italiano, in un modo non sempre semplice da capire: parole del lessico musicale che pensiamo quotidianamente, o che mostrano una speciale poesia. Una domenica su due, vediamo che cos'è la musica per la lingua nazionale
Questo aggettivo, sinonimo di monotono, si affaccia nella nostra lingua in tempi moderni, addirittura novecenteschi. Tuttavia, l’etimologia proviene da un antico strumento a corda singola che, nella Grecia del V secolo a. C., prendeva il nome di monocordo. Si dice che fosse stato inventato da Pitagora di Samo, nonostante sia probabile che esistesse già, forse in civiltà precedenti a quella greca.
Più che come strumento musicale in senso stretto, era sfruttato soprattutto come una sorta di regolo acustico; infatti, i Greci lo chiamarono anche cànone, nome che esprime proprio la sua funzione.
Nella sua versione originale, il monocordo era costituito da una corda tesa su due ponti fissi posti su una tavola. Sotto la corda era collocato un ponticello mobile che, a seconda di come veniva spostato, divideva la corda stessa in due sezioni di eguale calibro ma di lunghezza variabile, producendo suoni di frequenza più acuta.
Dopo il XII secolo fu aggiunta una cassa di risonanza, che aveva il duplice vantaggio di fungere da amplificatore sonoro e di rendere il monocordo portatile, tanto che nel Medioevo divenne anche uno strumento melodico. Dal XII al XIV secolo fu suonato prevalentemente a pizzico e dal Quattrocento con l’arco.
Il suono di base dello strumento, la corda a vuoto, dipendeva dalle dimensioni del monocordo, ma era anche personalizzato sull’estensione vocale del suo utilizzatore.
L’impiego principale del monocordo rimase comunque quello di calcolare gli intervalli musicali secondo rapporti numerici.
Ad esempio, chiunque abbia qualche dimestichezza con la chitarra sa che per produrre un suono armonico all’ottava alta deve sfiorare la corda al dodicesimo tasto, che corrisponde esattamente alla metà della sua lunghezza. Infatti, il rapporto che produce l’ottava è una proportio dupla, 2:1, che si ottiene anche posizionando a metà del monocordo il ponticello mobile. Modificando la sua posizione a un terzo della lunghezza della corda, si genera l’intervallo di quinta, nella proportio sesquialtera 3:2. Con i debiti calcoli, come facevano i canonisti dell’antica Grecia, o con il riscontro auditivo empirico degli armonisti, si ottengono i rapporti proporzionali per i rimanenti intervalli. Il monocordo servì pertanto come strumento didattico per tutto il Medioevo e fino al XIII secolo fu utilizzato per controllare l’intonazione degli apprendisti cantori.
Dal monocordo derivarono alcuni strumenti musicali particolari: la ghironda, la tromba marina che, nonostante il nome, è uno strumento ad arco, ma soprattutto il clavicordo, che nel Quattrocento e Cinquecento era chiamato talvolta monocordia. I primi clavicordi erano costituiti da una cassa contenente alcune corde d’eguale lunghezza; in sostanza, come se fossero monocordi identici allineati. Una serie di placchette metalliche chiamate tangenti, che svolgevano la funzione del ponticello mobile, erano azionate da tasti, producendo diversi suoni a seconda del punto in cui la tangente toccava la corda: per questo motivo il clavicordo ha più tasti che corde. Ed ecco un clavicordo dell’epoca ancora in azione.
Sebbene fino al 1700 circa il monocordo fosse impiegato perfino per dimostrare l’armonia esistente tra l’uomo e l’Universo, la parola prese la terminazione in e, dando luogo all’aggettivo che conosciamo, nel quale non troviamo più le caratteristiche utili e positive dello strumento, ma la sua essenza strutturale di semplice corda tesa, lunga e solitaria.
Perciò è monocorde l’amica che si lamenta sempre dello stesso problema insulso, oppure suona monocorde il tono spento di chi legge ad alta voce, ma svogliatamente.
Nel 1894 Matilde Serao caratterizzò così ‘l’imperfetto amante’, Nino Stresa: