SignificatoSottrarsi con la fuga a un danno, un pericolo, una costrizione; recarsi in fretta in un luogo, recarvisi per poco tempo; sfuggire
Etimologia dall’ipotetica voce del latino parlato excappare, composto parasintetico di cappa ‘cappa, cappuccio’.
Questa parola, con la sua mole di usi frequentatissimi, scaturisce da un’immagine precisa e del tutto inattesa, l’immagine di un gesto che appartiene a un tempo andato - pur avendo qualcosa di molto familiare.
Lo scappare, lo sappiamo, è essenzialmente un fuggire: un fuggire che permette di scampare un pericolo, un danno imminente, una costrizione. Eppure l’etimo ci parla di cappe, cioè mantelli con cappuccio. Che c’entra la cappa con chi scappa?
Be’, la risposta è semplice. Davanti al pericolo, se ci ritroviamo intabarrati, avvolti, impacciati nella cappa che portiamo addosso, la fuga è difficile: le gambe sono intralciate dai lembi lunghi di tessuto pesante, la visuale ai lati e dietro è parata dal cerchio del cappuccio, le braccia impedite non possono darci lo slancio, equilibrarci nella corsa - e le mani libere servono sempre. Così, se indossiamo una cappa, davanti alla minaccia a cui vogliamo sfuggire la prima cosa da fare, con gesto rapido, è togliersi la cappa di dosso; la seconda, darsi alla fuga.
C’è quindi una piccola, preziosa raffinatezza, nello scappare: lo scappare non nasce proprio come un fuggire, ma come la premessa del fuggire. Poi si è scavato il suo alveo diventando un fuggire a tutti gli effetti, ma quel marchio originale di atto prodromico resta in una sfumatura di imminenza, di immediatezza sottile ma pervasiva. Il prigioniero che scappa ha approfittato di una distrazione del guardiano, più che architettare un’evasione cervellotica; se mi scappa di mano il coltello, se mi scappa detta una parola cattiva, se mi è scappato il cane, descrivo il momento di uno slancio improvviso, che non trovo proprio uguale nello sfilare fluido dello sfuggire - per non parlare della pipì e della risata, che differenza se scappano o se sfuggono! E lo stesso vale nelle iperboli per cui scusami ma ora devo proprio scappare, per cui lui è talmente spiacevole che fa scappare tutti: la telecamera del nostro occhio non segue lunghe fughe, viaggi, allontanamenti, ma il momento d’inizio che è lo scappare, tutto attuale. Una sella di tempo presente in cui un gesto immediato si prepara all’imminente. Come quando i nostri avi - e non doveva essere evento raro o di poco conto, visto il successo del verbo - si levavano la cappa, si scappavano per scappare.
Questa parola, con la sua mole di usi frequentatissimi, scaturisce da un’immagine precisa e del tutto inattesa, l’immagine di un gesto che appartiene a un tempo andato - pur avendo qualcosa di molto familiare.
Lo scappare, lo sappiamo, è essenzialmente un fuggire: un fuggire che permette di scampare un pericolo, un danno imminente, una costrizione. Eppure l’etimo ci parla di cappe, cioè mantelli con cappuccio. Che c’entra la cappa con chi scappa?
Be’, la risposta è semplice. Davanti al pericolo, se ci ritroviamo intabarrati, avvolti, impacciati nella cappa che portiamo addosso, la fuga è difficile: le gambe sono intralciate dai lembi lunghi di tessuto pesante, la visuale ai lati e dietro è parata dal cerchio del cappuccio, le braccia impedite non possono darci lo slancio, equilibrarci nella corsa - e le mani libere servono sempre. Così, se indossiamo una cappa, davanti alla minaccia a cui vogliamo sfuggire la prima cosa da fare, con gesto rapido, è togliersi la cappa di dosso; la seconda, darsi alla fuga.
C’è quindi una piccola, preziosa raffinatezza, nello scappare: lo scappare non nasce proprio come un fuggire, ma come la premessa del fuggire. Poi si è scavato il suo alveo diventando un fuggire a tutti gli effetti, ma quel marchio originale di atto prodromico resta in una sfumatura di imminenza, di immediatezza sottile ma pervasiva. Il prigioniero che scappa ha approfittato di una distrazione del guardiano, più che architettare un’evasione cervellotica; se mi scappa di mano il coltello, se mi scappa detta una parola cattiva, se mi è scappato il cane, descrivo il momento di uno slancio improvviso, che non trovo proprio uguale nello sfilare fluido dello sfuggire - per non parlare della pipì e della risata, che differenza se scappano o se sfuggono! E lo stesso vale nelle iperboli per cui scusami ma ora devo proprio scappare, per cui lui è talmente spiacevole che fa scappare tutti: la telecamera del nostro occhio non segue lunghe fughe, viaggi, allontanamenti, ma il momento d’inizio che è lo scappare, tutto attuale. Una sella di tempo presente in cui un gesto immediato si prepara all’imminente. Come quando i nostri avi - e non doveva essere evento raro o di poco conto, visto il successo del verbo - si levavano la cappa, si scappavano per scappare.