SignificatoImposta indiretta che grava su produzione e vendita di beni di consumo determinati
Etimologia dal francese accise, a sua volta dal latino accīdere, composto di ad e cāedere ‘tagliare’.
È probabilmente una delle parole più odiate di questi tempi - ed è sulla bocca di tutti.
Questa parola scaturisce dal latino medievale, nella forma accisia, col significato generico di imposta. Attraverso il francese riemerge in italiano, con accezioni diverse a seconda della diversa area geografica d’Italia.
Oggi l’accisa è un’imposta indiretta - cioè un tributo che non è commisurato direttamente alla capacità contributiva dei contribuenti, ma che viene applicato a tutti indifferentemente al momento del consumo o del trasferimento di un certo bene. Al contrario le imposte dirette, come quelle sul reddito, sono commisurate a una manifestazione immediata della capacità contributiva (quale il reddito, appunto), e sono computate su una nuova ricchezza prodotta.
Il fine dell’accisa è in primis quello di generare gettito fiscale: quelli di energia elettrica e carburanti sono consumi necessari e diffusi, e ogni imposta che vi venga caricata su genera un introito colossale. Come diceva Petrolini, «Bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti». Questa è senza dubbio una finalità cara allo Stato, ma non è l’unica, e certo non la più interessante: applicando un’imposta indiretta sullo scambio di un certo bene, infatti, questo viene disincentivato - e quindi l’accisa può rispondere a logiche politiche. Pensiamo alle accise sui tabacchi o sugli alcolici: più alto il prezzo, minori i consumi. Ed è vero, come si sente dire ora che il prezzo del petrolio è in picchiata, che quando si fa il pieno si ha la sensazione che la propria auto vada ad accise; ma con sei auto ogni dieci persone in Italia, magari un settanta percento di accise sul prezzo alla pompa convince chi può a prendere altri mezzi. E che taccagni siamo a non voler più pagare un millesimo di euro al litro per finanziare la guerra in Etiopia?
È probabilmente una delle parole più odiate di questi tempi - ed è sulla bocca di tutti.
Questa parola scaturisce dal latino medievale, nella forma accisia, col significato generico di imposta. Attraverso il francese riemerge in italiano, con accezioni diverse a seconda della diversa area geografica d’Italia.
Oggi l’accisa è un’imposta indiretta - cioè un tributo che non è commisurato direttamente alla capacità contributiva dei contribuenti, ma che viene applicato a tutti indifferentemente al momento del consumo o del trasferimento di un certo bene. Al contrario le imposte dirette, come quelle sul reddito, sono commisurate a una manifestazione immediata della capacità contributiva (quale il reddito, appunto), e sono computate su una nuova ricchezza prodotta.
Il fine dell’accisa è in primis quello di generare gettito fiscale: quelli di energia elettrica e carburanti sono consumi necessari e diffusi, e ogni imposta che vi venga caricata su genera un introito colossale. Come diceva Petrolini, «Bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti». Questa è senza dubbio una finalità cara allo Stato, ma non è l’unica, e certo non la più interessante: applicando un’imposta indiretta sullo scambio di un certo bene, infatti, questo viene disincentivato - e quindi l’accisa può rispondere a logiche politiche. Pensiamo alle accise sui tabacchi o sugli alcolici: più alto il prezzo, minori i consumi. Ed è vero, come si sente dire ora che il prezzo del petrolio è in picchiata, che quando si fa il pieno si ha la sensazione che la propria auto vada ad accise; ma con sei auto ogni dieci persone in Italia, magari un settanta percento di accise sul prezzo alla pompa convince chi può a prendere altri mezzi. E che taccagni siamo a non voler più pagare un millesimo di euro al litro per finanziare la guerra in Etiopia?