Etimologia voce dotta recuperata dal latino chaos, prestito dal greco cháos ‘vuoto, immensità’, ma propriamente ‘fenditura, voragine, abisso’, derivato dal verbo khaíno ‘aprirsi, spalancarsi’.
Il termine ‘caos’ conserva un misterioso slittamento di significato: il caos primordiale, in origine, non aveva il profilo di disordine totale con cui ce lo immaginiamo adesso — e un po’ di mito greco può testimoniarlo.
Quella di Esiodo, celebre poeta greco vissuto fra l’VIII e il VII secolo a.C., è la prima grande voce a parlarci del caos, anzi, di Chaos. Nella sua Teogonia, un poema sulla nascita e la genealogia degli dèi, subito dopo il proemio ci dice che nacque, per primo, Chaos. Si tratta di una figura del tutto scontornata, appena personificata (visto che almeno ha prole), e che non consiste in quel turbinìo di materia informe che solitamente ci figuriamo. Chaos si apre. È una voragine, un abisso che nasce senza sapere dove e da dove: solo, si spalanca immenso. Gli si contrappone Gea, la Terra, che nasce seconda ma in maniera analoga, e da cui discendono tutte le creature divine e no. La progenie di Chaos è un manipolo — prime nate le tenebre di Erebo, e la Notte.
Insomma, in origine non c’era caos, nel Chaos, ma solo il vuoto. È stato nel passaggio alla cultura e alla lingua latina — e qui sta il dato curioso e poco penetrabile — che quella voragine si è fatta (anche) materia disordinata primigenia. Non sarebbe peregrino pensare che ci sia la suggestione dei filosofi atomisti, che immaginavano (poco a torto) un mondo in cui la materia si aggrega e disgrega rapinosamente, e per cui lo stato da cui emerge il nostro mondo apparentemente ordinato è in effetti caotico. In italiano questo è il caos, un disordine che se non è sempre primigenio è comunque estremo, fino alla dimensione domestica della grande confusione.
È un termine aulico ma pronto che fittamente popola la nostra letteratura e la nostra lingua da Dante in poi: l’impressione del caos come disordine universale, i suoi natali nobili come solo un’ascendenza greca sa essere, insieme al suo nome che è quasi personale, riescono paradossalmente a dargli un ordine, un’identità. Qui sta il suo potere: è una parola che riesce (o forse pretende di riuscire) a reggere ciò che è totalmente senza schema, imprevedibile, impenetrabile e di vitalità originale — molto sopra al burocratico disordine, alla mera confusione. Così parliamo del caos che c’era in quel mercato di Amman o del nostro paesello, del caos che c’è sulla mia scrivania, del caos del Paese in guerra.
Il termine ‘caos’ conserva un misterioso slittamento di significato: il caos primordiale, in origine, non aveva il profilo di disordine totale con cui ce lo immaginiamo adesso — e un po’ di mito greco può testimoniarlo.
Quella di Esiodo, celebre poeta greco vissuto fra l’VIII e il VII secolo a.C., è la prima grande voce a parlarci del caos, anzi, di Chaos. Nella sua Teogonia, un poema sulla nascita e la genealogia degli dèi, subito dopo il proemio ci dice che nacque, per primo, Chaos. Si tratta di una figura del tutto scontornata, appena personificata (visto che almeno ha prole), e che non consiste in quel turbinìo di materia informe che solitamente ci figuriamo. Chaos si apre. È una voragine, un abisso che nasce senza sapere dove e da dove: solo, si spalanca immenso. Gli si contrappone Gea, la Terra, che nasce seconda ma in maniera analoga, e da cui discendono tutte le creature divine e no. La progenie di Chaos è un manipolo — prime nate le tenebre di Erebo, e la Notte.
Insomma, in origine non c’era caos, nel Chaos, ma solo il vuoto. È stato nel passaggio alla cultura e alla lingua latina — e qui sta il dato curioso e poco penetrabile — che quella voragine si è fatta (anche) materia disordinata primigenia. Non sarebbe peregrino pensare che ci sia la suggestione dei filosofi atomisti, che immaginavano (poco a torto) un mondo in cui la materia si aggrega e disgrega rapinosamente, e per cui lo stato da cui emerge il nostro mondo apparentemente ordinato è in effetti caotico. In italiano questo è il caos, un disordine che se non è sempre primigenio è comunque estremo, fino alla dimensione domestica della grande confusione.
È un termine aulico ma pronto che fittamente popola la nostra letteratura e la nostra lingua da Dante in poi: l’impressione del caos come disordine universale, i suoi natali nobili come solo un’ascendenza greca sa essere, insieme al suo nome che è quasi personale, riescono paradossalmente a dargli un ordine, un’identità. Qui sta il suo potere: è una parola che riesce (o forse pretende di riuscire) a reggere ciò che è totalmente senza schema, imprevedibile, impenetrabile e di vitalità originale — molto sopra al burocratico disordine, alla mera confusione. Così parliamo del caos che c’era in quel mercato di Amman o del nostro paesello, del caos che c’è sulla mia scrivania, del caos del Paese in guerra.