Disdegno

di-sdé-gno

Significato Disprezzo e sdegno

Etimologia da disdegnare. Questo, attraverso l’ipotetica forma parlata disdignare, deriva dal latino classico dedignari, composto parasintetico di dignus ‘degno’, con prefisso negativo.

Alcune parole, per quanto si sappia grossomodo che cosa vogliono dire, mettono davvero alla prova quando ci cerchi di afferrarle meglio. È il caso del disdegno, sentimento tutt’altro che semplice.

Si può dire che è una forma di disprezzo. Ma mentre il disprezzo si incardina su una valutazione negativa del pregio, del prezzo, il disdegno si incardina su un’analoga valutazione negativa della dignità - una corda radicalmente più profonda. Il disdegno nasce davanti a qualcuno o qualcosa che non è ritenuto degno, confacente alla sua natura, all’altezza non solo di chi lo giudica, ma anche di sé stesso. Il politico retto rifiuta con disdegno la mazzetta offerta, la battuta di orrendo gusto ci fa chiudere in un silenzioso disdegno, e lo spregio di elementari regole di civiltà fa crescere in noi il disdegno per certa gente. È un sentimento che può suonare superbo, emblema di una pretesa superiorità morale - ma la superiorità morale esiste.

Si distingue anche, seppur più sottilmente, dallo sdegno, che trova una quantità di significati attenuati. Nel disdegno è più difficile trovarne. E anche la larghezza del suo suono, che richiede un certo tempo per essere pronunciato, ne segna la gravità.

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(Dante, Inferno XIII, vv. 70-72)

L’animo mio, per disdegnoso gusto,

credendo col morir fuggir disdegno,

ingiusto fece me contra me giusto.

Pier delle Vigne, ex consigliere di Federico II, descrive qui il proprio suicidio, dovuto ad una falsa accusa di tradimento. La frase si può parafrasare così: “Il mio animo, con gusto sprezzante, credendo, col darsi la morte, di evitare il disprezzo altrui, mi rese ingiusto (coll’uccidermi) contro me stesso, che ero giusto.”

Si notano subito tre coppie antitetiche, che sono anche polittòti (la stessa parola, cioè, ritorna con funzioni sintattiche diverse): disdegnoso-sdegno; me-contra me; ingiusto-giusto. Le ultime due coppie, poi, sono disposte a chiasmo, cioè si intrecciano tra loro (secondo la disposizione ABBA). E il tutto è immerso in un’armonia sonora (animo-mio, disdegnoso-credendo, morir-fuggir…)

Perché tanta raffinatezza? Anzitutto Dante adotta il linguaggio di Pier delle Vigne (retore rinomato) e ci cala nell’atmosfera elegante e diplomatica della corte. Inoltre ci ricorda la grandezza di quell’anima dannata, che sembra rinascere proprio nel dialogo (in netto contrasto con il silenzio “disumano” dell’inizio).

D’altra parte, la sintassi contorta è tipica di tutto il canto, e richiama gli alberi “nodosi e involti” in cui i suicidi si sono tramutati. Non è un caso: per Dante il suicidio è una violenza innaturale, che si ritorce contro il suo esecutore.

La sua radice, poi, è tutta racchiusa nell’ossimoro “disdegnoso gusto.” Pier delle Vigne, disprezzato da tutti, finisce per disprezzare a sua volta gli uomini e la vita. Si nutre cioè di rabbiosa superbia, come un animale ferito che assapora il suo stesso sangue. Ma il gusto è amaro, come ci suggerisce anche il suono delle parole: prevalgono vocali cupe e nessi consonantici “sgradevoli” (SD, GN, ST).

Dunque Pier delle Vigne è, lui stesso, un’antitesi: è innocente, ma si lascia avvelenare dal male che lo circonda. La giustizia umana dovrebbe, a rigore, assolverlo, ma proprio lui si condanna di fronte a Dio. Così, attraverso i polittoti, vediamo che il confine tra colpevolezza e innocenza è una linea sottile, nascosta nel profondo dell’anima: è la differenza che passa tra il disprezzo esercitato e quello subito, e tra la giustizia umana e quella divina.

Parola pubblicata il 21 Novembre 2016

Scorci letterari - con Lucia Masetti

Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.