Apostrofare
a-po-stro-fà-re (io a-pò-stro-fo)
Significato Fare un’apostrofe, rivolgersi a qualcuno; far seguire una parola da un apostrofo
Etimologia nei primi casi dal greco apostrophé ‘apostrofe’, nel secondo dal greco apòstrophos ‘volto indietro’, entrambi derivati di apostrépho ‘volgere altrove’.
Parola pubblicata il 19 Marzo 2017
Mi guardo bene dall’apostrofare l’articolo maschile “un”, mentre apostrofo il tizio che ha buttato a terra una cicca suggerendogli di raccoglierla. Perché? La faccenda sembra complessa ma non lo è.
Siamo infatti davanti a due parole diverse, che pur avendo una radice comune hanno preso vie molto diverse, per poi riconfluire in una uguale forma. Una (meno interessante) prende le mosse dall’apostrofo quale segno grafico (‘), impiegato in italiano per indicare un’elisione (un’, l’, quell’, grand’) e in qualche caso un troncamento (be’, po’, da’): non è questo il luogo per discettare sugli usi dell’apostrofo e quindi di questo apostrofare, ma online si trovano pagine autorevoli e molto complete che li squadernano.
Più brillante è l’apostrofare che nasce dall’apostrofe. Ma che cos’è l’apostrofe? Si tratta di una figura retorica davvero gagliarda, che consiste nell’interruzione di un’esposizione, di una narrazione, per far rivolgere un personaggio o la stessa voce narrante a un interlocutore, ideale o meno: l’etimologia ce la disegna come un ‘volgere altrove’, che spezza e devia verso qualcuno il discorso. È una figura ricorrente in poesia: pensiamo a quante volte Dante, nel mezzo di situazioni coinvolgenti, si scaglia in invettive contro persone e città intere («Ahi, Pisa, vituperio delle genti», «Godi, Fiorenza»), pensiamo alla Canzone di Orlando, in cui proprio la voce di Orlando rompe il racconto rivolgendosi alla sua spada Durlindana, che con le ultime forze sta cercando di spezzare per non farla cadere in mano nemica («E! Durendal, cum es bele e clere e blanche! Cuntre soleill si luises e reflambes!»). Ma anche in ambito forense si ricorre volentieri (e classicamente) all’apostrofe quando nell’arringa non ci si rivolge al giudice, ma alla controparte o all’assistito.
Anche un passo fuori dalla retorica più alta e calcolata resta comune fare apostrofi, in tutti i casi in cui ci si rivolge a qualcuno con forza, invocandolo o rimproverandolo - quasi si rompesse un fluire tranquillo. L’automobilista che taglia la strada ai ciclisti viene da questi apostrofato con epiteti poco lusinghieri, il giocatore poco attivo viene apostrofato dai tifosi infervorati, e abbiamo tutti in mente quella canzone in cui una signora «rivolgendosi alle cornute/ le apostrofò con parole argute».