Etimologia propriamente participio passato di comprendere, dal latino comprehèndere, derivato di prehèndere ‘prendere’, col prefisso cum- ‘con-‘.
Ci sono parole fondamentali che sono facilissime da usare nella loro accezione comune. Ma possono diventare estremamente ricercate se le usiamo in una maniera lievemente diversa dal solito — con un effetto particolarmente d’impatto.
‘Compreso’ è il participio passato del verbo comprendere, che potremmo approssimare con un ‘prendere insieme’, o forse meglio come un ‘prendere in un uno’. Fatto sta che ‘compreso’ vuol dire ‘incluso, contenuto’ — e questo lo sappiamo. La spedizione è compresa nel prezzo, nella confezione delle lenzuola sono comprese due paia di federe (esclusive, di solito), e cerco un pacchetto di viaggio tutto compreso perché sono avventuroso come un cuscino di poltrona. Questo è il senso fisico di ‘compreso’.
Ma se parlo di un problema ben compreso, di come non mi sento compreso in una certa compagnia, di un passaggio non adeguatamente compreso, sono passato a una dimensione mentale, prossima all’inteso, al capito — ma dobbiamo cercare le differenze di sfumatura.
Ci può venire in mente che questo compreso sia l’atto di chi si è servito dal gran buffet di un sapere. Una certa conoscenza è ora compresa, fatta propria — il capire è etimologicamente un ‘prendere’. Ma questa è solo una faccia della medaglia: non dobbiamo credere che il comprendere sia un atto di padronanza compiuto dall’esterno. C’è una forma di unità speculare, nel compreso — non è un prendere, ma un prendere insieme, prendere in un uno: se leggiamo per comprendere, anche noi siamo compresi nella lettura. Non è un’azione che si conserva esterna, è tutta coinvolta.
Abbiamo l’abitudine di dire che un panorama ci prende, che ci prende un lavoro, che ci prende una storia. Il ‘compreso’ ci rappresenta — ed è questa l’accezione ricercata che citavo in apertura — anche un ventaglio di questo assorbimento.
Posso restare immobile col naso all’insù, compreso di meraviglia, o imbambolarmi a guardare qualcuno totalmente compreso d’amore; l’amica sul lavoro non ci considera di uno sguardo, compresa com’è nel suo ruolo; compreso nel montaggio del mobile, non sento il caffè che esce dalla moka.
Ho detto che si tratta di un assorbimento, e in effetti il comportamento del compreso non pare diverso da quello dell’assorto (etimologicamente è un allotropo di ‘assorbito’). Ma l’assorto ha una vena di assenza, è più fuori da sé. Invece il compreso, forse, legge quel medesimo comportamento con una venatura di presenza — quasi che la prospettiva, da esterna, si fosse fatta interna.
Parola facile, e facile da decodificare anche in questa accezione. Se ne superiamo la stranezza, che nasce dalla non consuetudine, ecco una risorsa splendida per fare del semplice qualcosa di ricercato, ribaltando una prospettiva comune, trasformando chi comprende in chi è compreso.
Ci sono parole fondamentali che sono facilissime da usare nella loro accezione comune. Ma possono diventare estremamente ricercate se le usiamo in una maniera lievemente diversa dal solito — con un effetto particolarmente d’impatto.
‘Compreso’ è il participio passato del verbo comprendere, che potremmo approssimare con un ‘prendere insieme’, o forse meglio come un ‘prendere in un uno’. Fatto sta che ‘compreso’ vuol dire ‘incluso, contenuto’ — e questo lo sappiamo. La spedizione è compresa nel prezzo, nella confezione delle lenzuola sono comprese due paia di federe (esclusive, di solito), e cerco un pacchetto di viaggio tutto compreso perché sono avventuroso come un cuscino di poltrona. Questo è il senso fisico di ‘compreso’.
Ma se parlo di un problema ben compreso, di come non mi sento compreso in una certa compagnia, di un passaggio non adeguatamente compreso, sono passato a una dimensione mentale, prossima all’inteso, al capito — ma dobbiamo cercare le differenze di sfumatura.
Ci può venire in mente che questo compreso sia l’atto di chi si è servito dal gran buffet di un sapere. Una certa conoscenza è ora compresa, fatta propria — il capire è etimologicamente un ‘prendere’. Ma questa è solo una faccia della medaglia: non dobbiamo credere che il comprendere sia un atto di padronanza compiuto dall’esterno. C’è una forma di unità speculare, nel compreso — non è un prendere, ma un prendere insieme, prendere in un uno: se leggiamo per comprendere, anche noi siamo compresi nella lettura. Non è un’azione che si conserva esterna, è tutta coinvolta.
Abbiamo l’abitudine di dire che un panorama ci prende, che ci prende un lavoro, che ci prende una storia. Il ‘compreso’ ci rappresenta — ed è questa l’accezione ricercata che citavo in apertura — anche un ventaglio di questo assorbimento.
Posso restare immobile col naso all’insù, compreso di meraviglia, o imbambolarmi a guardare qualcuno totalmente compreso d’amore; l’amica sul lavoro non ci considera di uno sguardo, compresa com’è nel suo ruolo; compreso nel montaggio del mobile, non sento il caffè che esce dalla moka.
Ho detto che si tratta di un assorbimento, e in effetti il comportamento del compreso non pare diverso da quello dell’assorto (etimologicamente è un allotropo di ‘assorbito’). Ma l’assorto ha una vena di assenza, è più fuori da sé. Invece il compreso, forse, legge quel medesimo comportamento con una venatura di presenza — quasi che la prospettiva, da esterna, si fosse fatta interna.
Parola facile, e facile da decodificare anche in questa accezione. Se ne superiamo la stranezza, che nasce dalla non consuetudine, ecco una risorsa splendida per fare del semplice qualcosa di ricercato, ribaltando una prospettiva comune, trasformando chi comprende in chi è compreso.