SignificatoNon credere più quello che si credeva prima; non credere vero
Etimologia voce dotta recuperata dal latino tardo discredere, derivato di credere col prefisso negativo dis-.
Questa è bella. Un ramo secco nell’albero genealogico del verbo credere, un termine desueto ma ancora non dato per morto, che non ha veri sinonimi, e che ci lascia con diversi interrogativi.
Per significare il suo concetto, comunemente ricorriamo a perifrasi negative del credere. Le sfere del dubitare, del diffidare, dell’essere scettici riguardano uno stato di incertezza, ora sospettosa, ora possibilista, ma aperta — non si avvicinano al tratto netto del discredere.
Con semplicità, appone un prefisso negativo al credere, e diventa quindi un non credere più (sottinteso, a qualcosa che si credeva prima), il cessare di credere, oppure, in senso più ampio, un non credere vero. Ad esempio la collega ci può parlare di quando ha iniziato a discredere alle storie che le raccontava l’ex, il bambino di sei anni può raccontare fieramente di come ha discreduto che Babbo Natale esistesse, e si può notare come il professore, davanti al lavoro sorprendentemente buono, discreda che sia farina del sacco dello studente.
C’è qualcosa di strano, in queste frasi, no? Specie nelle prime accezioni.
Un po’ è dovuto al fatto che ‘discredere’ è un verbo che non ci è consueto — e in lingua tutto l’inconsueto, anche se ha fascino e mordente, può suonare improbabile, se non sbagliato. Ma forse c’è qualche ragione più profonda: dopotutto siamo ben abituati a parole sorelle che prefissano il credere sviandolo o rivoluzionandolo, ad esempio quando leggiamo un’invettiva rétro contro i miscredenti, o quando raccontiamo d’esserci ricreduti, in meglio o in peggio, su qualcosa o qualcuno.
Forse il punto è questo: il succedersi dei crederi difficilmente consiste in una cancellazione, in un’obliterazione cui segue un vuoto. Tendenzialmente consiste in riscritture, in sovrascritture successive. Narrazioni, paradigmi, si avvicendano, e non restiamo mai senza. Anche quando discrediamo che sia Babbo Natale a portarci i regali. Forse, si potrebbe spiegare lo scarso successo del discredere proprio nella stranezza del taglio poco calzante, poco naturale che individua.
I dizionari ancora non ci mettono la croce accanto, resta un termine letterario in cui ci si può imbattere e che può essere impiegato in maniera del tutto trasparente quando si voglia significare con precisione il tratto di una cessazione del credere. Però sembra significativo che Manzoni, che ha scritto i Promessi sposi prendendo il polso alla lingua viva, abbia usato il verbo ‘discredere’ nell’edizione del 1825, per poi espungerlo in quella del 1840 (il passo è quello della misteriosa sparizione della conversa nel racconto della monaca di Monza, nel capitolo X).
Curiosamente un suo parente somigliante e ben poco rassicurante, il discredito, è invece sempre sulla cresta dell’onda — ma il nesso fra credere e credito è un’altra storia, e dovrà essere raccontata un’altra volta.
Questa è bella. Un ramo secco nell’albero genealogico del verbo credere, un termine desueto ma ancora non dato per morto, che non ha veri sinonimi, e che ci lascia con diversi interrogativi.
Per significare il suo concetto, comunemente ricorriamo a perifrasi negative del credere. Le sfere del dubitare, del diffidare, dell’essere scettici riguardano uno stato di incertezza, ora sospettosa, ora possibilista, ma aperta — non si avvicinano al tratto netto del discredere.
Con semplicità, appone un prefisso negativo al credere, e diventa quindi un non credere più (sottinteso, a qualcosa che si credeva prima), il cessare di credere, oppure, in senso più ampio, un non credere vero. Ad esempio la collega ci può parlare di quando ha iniziato a discredere alle storie che le raccontava l’ex, il bambino di sei anni può raccontare fieramente di come ha discreduto che Babbo Natale esistesse, e si può notare come il professore, davanti al lavoro sorprendentemente buono, discreda che sia farina del sacco dello studente.
C’è qualcosa di strano, in queste frasi, no? Specie nelle prime accezioni.
Un po’ è dovuto al fatto che ‘discredere’ è un verbo che non ci è consueto — e in lingua tutto l’inconsueto, anche se ha fascino e mordente, può suonare improbabile, se non sbagliato. Ma forse c’è qualche ragione più profonda: dopotutto siamo ben abituati a parole sorelle che prefissano il credere sviandolo o rivoluzionandolo, ad esempio quando leggiamo un’invettiva rétro contro i miscredenti, o quando raccontiamo d’esserci ricreduti, in meglio o in peggio, su qualcosa o qualcuno.
Forse il punto è questo: il succedersi dei crederi difficilmente consiste in una cancellazione, in un’obliterazione cui segue un vuoto. Tendenzialmente consiste in riscritture, in sovrascritture successive. Narrazioni, paradigmi, si avvicendano, e non restiamo mai senza. Anche quando discrediamo che sia Babbo Natale a portarci i regali. Forse, si potrebbe spiegare lo scarso successo del discredere proprio nella stranezza del taglio poco calzante, poco naturale che individua.
I dizionari ancora non ci mettono la croce accanto, resta un termine letterario in cui ci si può imbattere e che può essere impiegato in maniera del tutto trasparente quando si voglia significare con precisione il tratto di una cessazione del credere. Però sembra significativo che Manzoni, che ha scritto i Promessi sposi prendendo il polso alla lingua viva, abbia usato il verbo ‘discredere’ nell’edizione del 1825, per poi espungerlo in quella del 1840 (il passo è quello della misteriosa sparizione della conversa nel racconto della monaca di Monza, nel capitolo X).
Curiosamente un suo parente somigliante e ben poco rassicurante, il discredito, è invece sempre sulla cresta dell’onda — ma il nesso fra credere e credito è un’altra storia, e dovrà essere raccontata un’altra volta.