SignificatoAndare in esilio, specie volontariamente; di qualcosa, non avere a che fare, non riguardare
Etimologia voce dotta recuperata dal latino exulare, derivato di exul ‘esule’.
Un verbo aggraziato: la fluida corsa del suo suono, quando lo richiamiamo nei nostri discorsi, evoca immagini rapide. Per cercare di afferrarle merita guardare in scorcio la sua storia, perché è struggente ed eloquente, per certi versi maliziosa.
Parte tutto dall’esule. L’exul latino precede non solo il verbo exulare, ma lo stesso exilium. Quindi il concetto di esilio è costruito per induzione a partire dalla condizione e dal nome dell’esule. Una persona fuoriuscita, proscritta, cacciata o che volontariamente si allontana dalla patria — che spesso in antico era una singola città. Ci sono idee diverse sulla sua origine etimologica, e incerte. Quella classica (e screditata) lo vorrebbe costruito da ex e solum, ‘fuori dalla terra’; alcuni vedono l’ipotesi migliore in un exsilire, ‘saltare fuori’, ma nessuno si mostra sicuro.
Per lunghi secoli l’esulare, voce dotta recuperata nel Trecento, è stato strettamente ed esclusivamente collegato all’esilio: esulare ha innanzitutto significato proprio andarsene dalla propria terra madre, specie volontariamente — anche se quando si parla di esilio tracciare una distinzione fra volontario e forzato è spesso difficile. Esulano i patrioti perseguitati, esulano i capi di governi rovesciati, esulano famiglie.
Ma questo esilio gemma, e l’esulare dà significati conseguenti: lasciare, abbandonare, disperdersi, perfino cessare di esistere. Perché l’esule a volte resta legato stretto al posto da cui se n’è andato, altre volte lo strappo è più forte, e della rinascita, di qua dall’orizzonte, non se ne saprà mai nulla. Esulano i morti nell’ossario comune, esulano vecchie fantasie dalla mente che ha fantasie nuove, esula la rabbia dopo il perdono. Di qui scaturisce il nostro comune esulare.
Un essere estraneo, un non aver nulla a che fare, un essere fuori dal cerchio di ciò che interessa: vorrei aiutarti, ma esula dalle mie competenze; è un aneddoto brillante, ma esula dall’argomento; esula dalla mia volontà, accadrà comunque.
Con un taglio che volentieri ha un po’ di malizioso dispiacere si vede ciò che non c’entra come un esule che abbandona il qui e ora — vedi quell’aiuto, quell’aneddoto, quell’accadimento con cappello e valigia salire sul piroscafo a buio. Non voglio dire che non c’entrerebbe in assoluto: dico che è partito, che è estraneo (ormai?) alle mie competenze, all’argomento, alla mia volontà. Una sottigliezza che il linguaggio burocratico ha colto bene, tenendo in gran conto questo verbo.
Che però resta aggraziato e forte, con una screziatura di sofferenza, come quella di chi è estraneo perché è partito dolorosamente tanto tempo fa. Se la tenessimo presente, useremmo ‘esulare’ in maniera più viva e potente.
Un verbo aggraziato: la fluida corsa del suo suono, quando lo richiamiamo nei nostri discorsi, evoca immagini rapide. Per cercare di afferrarle merita guardare in scorcio la sua storia, perché è struggente ed eloquente, per certi versi maliziosa.
Parte tutto dall’esule. L’exul latino precede non solo il verbo exulare, ma lo stesso exilium. Quindi il concetto di esilio è costruito per induzione a partire dalla condizione e dal nome dell’esule. Una persona fuoriuscita, proscritta, cacciata o che volontariamente si allontana dalla patria — che spesso in antico era una singola città. Ci sono idee diverse sulla sua origine etimologica, e incerte. Quella classica (e screditata) lo vorrebbe costruito da ex e solum, ‘fuori dalla terra’; alcuni vedono l’ipotesi migliore in un exsilire, ‘saltare fuori’, ma nessuno si mostra sicuro.
Per lunghi secoli l’esulare, voce dotta recuperata nel Trecento, è stato strettamente ed esclusivamente collegato all’esilio: esulare ha innanzitutto significato proprio andarsene dalla propria terra madre, specie volontariamente — anche se quando si parla di esilio tracciare una distinzione fra volontario e forzato è spesso difficile. Esulano i patrioti perseguitati, esulano i capi di governi rovesciati, esulano famiglie.
Ma questo esilio gemma, e l’esulare dà significati conseguenti: lasciare, abbandonare, disperdersi, perfino cessare di esistere. Perché l’esule a volte resta legato stretto al posto da cui se n’è andato, altre volte lo strappo è più forte, e della rinascita, di qua dall’orizzonte, non se ne saprà mai nulla. Esulano i morti nell’ossario comune, esulano vecchie fantasie dalla mente che ha fantasie nuove, esula la rabbia dopo il perdono. Di qui scaturisce il nostro comune esulare.
Un essere estraneo, un non aver nulla a che fare, un essere fuori dal cerchio di ciò che interessa: vorrei aiutarti, ma esula dalle mie competenze; è un aneddoto brillante, ma esula dall’argomento; esula dalla mia volontà, accadrà comunque.
Con un taglio che volentieri ha un po’ di malizioso dispiacere si vede ciò che non c’entra come un esule che abbandona il qui e ora — vedi quell’aiuto, quell’aneddoto, quell’accadimento con cappello e valigia salire sul piroscafo a buio. Non voglio dire che non c’entrerebbe in assoluto: dico che è partito, che è estraneo (ormai?) alle mie competenze, all’argomento, alla mia volontà. Una sottigliezza che il linguaggio burocratico ha colto bene, tenendo in gran conto questo verbo.
Che però resta aggraziato e forte, con una screziatura di sofferenza, come quella di chi è estraneo perché è partito dolorosamente tanto tempo fa. Se la tenessimo presente, useremmo ‘esulare’ in maniera più viva e potente.