Negrigura

ne-gri-gù-ra

Significato Atto o gesto inappropriato, maleducato, senza creanza o anche sciocco, stupido, compiuto senza riflettere

Etimologia dal libro ‘Lessico famigliare’ di Natalia Ginzburg, probabilmente derivato dal ladino (il giudaico-spagnolo) negregura, derivato di negro ‘nero’, con significati multiformi in genere negativi — dal latino niger.

La parola 'negro', come sappiamo, è problematica: per quanto il suo pedigree possa essere quello di un latinismo letterario, resta un termine che col tempo, nell’uso corrente, ha maturato un univoco tratto razzista. Però… c’è qualche circoscritto ‘però’, che riguarda tradizioni particolari.

Ancora oggi, infatti, è possibile sentirla pronunciare con un senso particolare se ci avventuriamo nei vicoli poco lontani da Largo Argentina, a Roma, verso il Portico di Ottavia, nel cuore del ghetto ebraico: «Quanto si’ negro!», ovvero «Quanto sei brutto!» urlerà un vecchio nonno al nipote che esce dal barbiere con un taglio di capelli stravagante, alla moda dei calciatori. Ma questo negro, il negro dei dialetti giudaico-italiani, è lontano dal negro impastato di razzismo che intendiamo di primo acchito.

Quando nel 1492 i sefarditi furono cacciati dalla Spagna, le comunità ebraiche italiane accolsero un gran numero di esuli. Le situazioni linguistiche ebraiche, tutte accomunate dalla caratteristica condizione di gruppo chiuso, furono modificate fra l’altro dall’apporto lessicale del ladino, il giudaico-spagnolo (da non confondere col ladino dolomitico, che è una lingua molto diversa), e tutte integrarono una parola dal significato negativo ma flessibile, adatta alle circostanze più brutte come a quelle più buffe: negro.

Se andiamo a controllare il dizionario ladino-spagnolo, troviamo questo termine tradotto come ‘oscuro, nero, scuro’ per il significato più concreto e ‘cattivo’ per quello più astratto. E la parola negregura è ‘la qualità dell’esser negro’.

Una parola del genere, così specificamente ebraica, sarebbe rimasta limitata alle botteghe di telami e alimentari kasher fiorite attorno alle sinagoghe e alle scole italiane nei secoli, ma Natalia Ginzburg (nata Levi), grande autrice e politica italiana del secolo scorso, ce lo ha fatto conoscere grazie ai reboanti e ripetitivi rimproveri che il padre, il professor Giuseppe Levi, rivolgeva ai suoi estenuanti cinque figli e che sono tutti riportati magistralmente nel libro ‘Lessico famigliare’:

Ogni atto o gesto nostro che stimava inappropriato, veniva definito da lui ‘una negrigura’. ‘Non siate dei negri! Non fate delle negrigure!’ ci gridava continuamente. La gamma delle negrigure era grande. Chiamava ‘una negrigura’ portare, nelle gite in montagna, scarpette da città; attaccar discorso, in treno o per strada, con un compagno di viaggio o con un passante; conversare dalla finestra con i vicini di casa; levarsi le scarpe in salotto, e scaldarsi i piedi alla bocca del calorifero; lamentarsi, nelle gite in montagna, per sete, stanchezza o sbucciature ai piedi; portare, nelle gite, pietanze cotte e unte, e tovaglioli per pulirsi le dita.

Insomma, accontentare il professor Levi, o almeno non dargli motivo di lamentarsi dei figli, era missione ardua: qualsiasi cosa si facesse, si finiva col combinare negrigure o coll’esser dei negri. Giuseppe Levi era triestino, e il lessico famigliare di Ginzburg ci rappresenta quanto anche la lingua, a Trieste, sia un crogiolo di diverse culture, fra cui non ultima quella ebraica.

Ci mostra anche come gli usi che sono frutto di tradizioni insolite e locali godano di un certo isolamento, per cui il dibattito che coinvolge un termine nella lingua nazionale può non investirli direttamente, anche se sono della stessa pianta. Così la negrigura, col suo suono bizzarro e il suo significato graffiante, non mostra i problemi generali del termine ‘negro’: ha l’unico difetto di essere un termine non semplicemente ricercato, ma utilizzabile soltanto come citazione di Ginzburg.

Parola pubblicata il 11 Settembre 2022