Simbolo

sìm-bo-lo

Significato Elemento, segno considerato rappresentativo di un concetto, di una condizione, di un’organizzazione; segno convenzionale, specie in vari ambiti scientifici; emblema

Etimologia dal latino sýmbolus, dal grreco sýmbolon ‘contrassegno’, derivato dal tema di symbállo ‘accostare, confrontare’, da bállo ‘mettere’ col prefisso syn- ‘con’.

La Tour Eiffel, la croce, la colomba, i lucchetti sui ponti, il numero 666. Cos’hanno in comune? Sono simboli: rispettivamente, di Parigi, del cristianesimo, della pace, di amore indissolubile, del demonio. Così neutra è la natura del simbolo da poter accomunare il diavolo e l’acqua santa. Il che è curioso, essendo diavolo e simbolo etimologicamente antitetici: il primo è dal latino diabolus, a sua volta dal greco diábolos ‘calunniatore’, derivato di diabállo ‘separare, disunire, mettere discordia’ – l’esatto contrario di symbállo ‘mettere insieme, unire’, da cui deriva sýmbolon. Quest’ultimo, in origine, era il segno di riconoscimento di un patto di ospitalità o alleanza, ottenuto spezzando irregolarmente in due un oggetto (ad esempio un anello) in modo che entrambe le famiglie possedessero uno dei due pezzi combacianti. Da questo significato concreto, poi, sýmbolon – così come il latino symbolus e il nostro simbolo – prese quello più ampio di ‘segno’, ossia di qualcosa che sta per qualcos’altro.

Simbolo e segno, quindi, sono la stessa cosa? Vediamo. Il segno è oggetto di una specifica disciplina, la semiotica, che ha tra i suoi padri una nostra vecchia conoscenza, Charles Sanders Peirce (1839-1914). Secondo Peirce, in generale un segno è «qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa d’altro sotto qualche rispetto», e più nel dettaglio vi sono tre tipi di segni: gli indici (connessi materialmente all’oggetto significato, come il fumo rispetto al fuoco), le icone (in cui la significazione avviene per somiglianza, come il segno del sole nel meteo) e i simboli (il cui legame con l’oggetto è meramente convenzionale, come accade nei segni linguistici). Nella storia della filosofia, però, segno e simbolo perlopiù si equivalgono, e comunque nessun pensatore ha imperniato la propria visione del mondo su questi concetti. Almeno fino al 1923, quando il tedesco Ernst Cassirer (1874-1945) pubblica il primo volume del suo capolavoro, La filosofia delle forme simboliche.

Per Cassirer, il simbolo è ogni «contenuto singolo della sensibilità […] reso portatore di un generale significato spirituale», ossia qualunque attribuzione di significato a qualcosa. Ed è appunto questa la funzione della mente umana: tutta la nostra attività conoscitiva è simbolica, nel senso che mediante i simboli dà forma al mondo che esperiamo. Il mito, la religione, l’arte, il linguaggio e la scienza, che egli chiama «forme simboliche», sono «impronte che tendono a realizzare l’essere», cioè a strutturarlo, costruirlo simbolicamente. Il simbolo infatti «non serve solamente allo scopo di comunicare un contenuto concettuale già bello e pronto, ma è lo strumento in virtù del quale si costituisce questo stesso contenuto».

Il ciuffo impertinente di Cassirer può essere letto come simbolo di sicumera, di sprezzo per le convenzioni, o dello scirocco stesso.

Chiaramente, il punto di partenza di Cassirer è la ‘rivoluzione copernicana’ di Kant, per cui non è la nostra mente a modellarsi sugli oggetti di conoscenza ma questi ultimi a conformarsi a lei. Ciò che chiamiamo ‘realtà’ non è qualcosa di dato in partenza: non esiste una percezione neutra delle ‘cose in sé’, perché ogni percezione è sempre inserita in una determinata forma simbolica che la plasma, creando peculiari «mondi di immagini». Nella conoscenza tutto è filtrato, mediato dai simboli, e senza questa mediazione l’esperienza umana ‘grezza’ del mondo non avrebbe senso né forma.

L’essere umano, animal symbolicum più che animal rationale, in quanto produttore di simboli si costruisce il proprio mondo, e ciò lo pone in una «nuova dimensione della realtà», più vasta ma – soprattutto – interamente culturale: «L’uomo non si trova più direttamente di fronte alla realtà; per così dire, egli non può più vederla faccia a faccia […] Si è circondato di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici e di riti religiosi a tal segno da non poter vedere e conoscere più nulla se non per il tramite di questa artificiale mediazione». Pertanto, è continuamente «a colloquio con sé medesimo», non in rapporto «con le cose stesse».

Ecco l’aspetto più affascinante e inquietante di questa concezione: poiché con la nostra attività intellettuale trasformiamo tutto in simboli, in cultura, non conosciamo niente al di là di questa dimensione da noi stessi prodotta, oltre i «mondi di immagini» creati dalle forme simboliche. Ma ciò non è affatto un problema (nessuna nostalgia per la fantomatica ‘cosa in sé’), anzi: ogni forma di conoscenza, secondo Cassirer, è tanto più raffinata, rigorosa e significativa quanto più è simbolica e astratta: «Non già nella vicinanza al dato immediato ma nel progressivo allontanamento da esso risiedono il valore e la natura specifica del linguaggio come dell’attività artistica»; per non parlare della scienza, i cui concetti sono «simboli intellettuali liberamente creati», «simulacri» ai quali nei «dati immediati della sensazione non corrisponde nulla».

Se vediamo questo allontanamento dal «dato immediato» come una maledizione e aneliamo a ‘squarciare il velo’ del reale, in cerca di autenticità e rapporti ‘intatti’ con le cose, decisamente, conviene che ci rivolgiamo a un altro filosofo.

Parola pubblicata il 04 Aprile 2023

Le parole e le cose - con Salvatore Congiu

I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.