Arabesque
arabèsc
Significato Tipo di composizione musicale, di solito per pianoforte. Una delle principali e più note figure della danza classica, in cui il ballerino assume una postura a braccia tese, con una gamba sollevata all’indietro
Etimologia termine francese derivato da etnonimo: dal latino Árabus, dal greco Áraps, etnico di origine semitica.
Parola pubblicata il 11 Maggio 2025
Le parole della musica - con Antonella Nigro
La vena musicale percorre con forza l'italiano, in un modo non sempre semplice da capire: parole del lessico musicale che pensiamo quotidianamente, o che mostrano una speciale poesia. Una domenica su due, vediamo che cos'è la musica per la lingua nazionale
Le parole viaggiano, come nel caso di arabesco, che deriva da arabo; quest’ultima viene dall’accadico arabi, divenendo ’arab in arabo, Áraps in greco, Ărăbs in latino e così via sino alle lingue moderne. In italiano la forma con suffisso in –esco è ufficialmente attestata dal Boccaccio, che racconta nel Decameron l’incredibile ritorno di Messer Torello, creduto morto. Fu riconosciuto e accolto, nonostante «avesse la barba grande e in abito arabesco fosse».
Nel Cinquecento l’arabesco passa in Francia e diventa arabesque, mantenendo la stessa accezione. I due termini coesistono a lungo. L’arabesco si riferisce anche all’ornamentazione tipica dell’arte islamica: trafori, fogliame, forme geometriche e abbellimenti elaborati, presente perfino nelle complesse fioriture dell’arte calligrafica.
Nella sua pièce rappresentata nel 1660, La Toison d’or (Il vello d’oro), Corneille descrive i pannelli dorati del Palazzo del Sole decorati con fogliami arabesque. Nel Settecento in Italia il conte Francesco Algarotti trasla in campo musicale l’uso figurato, deprecando la moda di abbellire la musica nazionale con «nuovi arabeschi musicali, nuovi arzigogoli».
Ma il termine piace; nell’Ottocento Edgar Allan Poe intitolò una delle sue raccolte di racconti Tales of the Grotesque and Arabesque. In un imprecisato momento, sempre nell’Ottocento, in Francia si chiamò arabesque la figura-icona della danza classica, elegante soggetto caro al pittore Edgar Degas; è una figura davvero nota a tutti: si esegue aprendo le braccia e sollevando una gamba indietro, e prevede diverse varianti.
Foto di Frode Inge Helland
Grazie all’uso figurato, con un processo quasi sinestetico e con una consolidata storia maturata nel lessico delle arti architettonico-ornamentali, l’arabesque sposò in poligamia anche la musica; indicò dunque una composizione dal carattere elegante, scorrevole e dalla melodia sinuosa.
Nel frattempo, in Europa il pianoforte divenne lo strumento emblema della musica del secolo, immancabile in ogni salotto. L’arabesque s’insinuò nel virtuosismo pianistico, dove le linee melodiche si sviluppano intrecciandosi in molteplici volute, caratterizzate da scale e altri elementi esornativi.
Robert Schumann fu il primo compositore a usare il termine in musica, con il suo Arabeske del 1839 (Arabeske è la variante germanica del nome); seguì Stephen Heller con i suoi 4 Arabesques.
Deux arabesques di Debussy rappresentano però l’esempio più tipico e celebre di questa forma, che in realtà non ha una struttura precisa, come invece composizioni più strutturate quali la sonata o la fuga. Il musicista francese reinterpretò l’ideale arabo del disegno puro, non figurativo, secondo una concezione diversa da quella di Schumann, che probabilmente si richiamava a un significato di tipo letterario, piuttosto che puramente astratto.
Debussy fu attirato dagli effetti che scaturivano dalla combinazione delle linee melodiche; nonostante definisse il contrappunto ‘la cosa più ripugnante della musica’, ammirò incondizionatamente l’uso che ne fecero maestri ‘primitivi’ come Palestrina o Lasso, e poi Bach, come scrisse nel suo pungente Monsieur Croche antidilettante.
Dunque, la ‘linea’ è al contempo figlia e generatrice di attraenti e suggestive armonie. Ma naturalmente l’arabesque vive nel suo tempo; nasce in una società che sperimenta l’apice dell’esotismo, dopo la stagione delle turcherie settecentesche quando, anche solo con la fantasia, gli europei si volgono a Oriente sognando la Sublime Porta. L’arabesque prolunga ed esalta l’idea del fascino promanato da quel mondo, forte di un carattere libero, capriccioso, fuori da certi rigidi schemi che appartenevano al passato. Si libra incurante, lieve, elegante e vagamente indefinita, in una dimensione di sogno estetizzante e astratto.