Arrangiamento
ar-ran-gia-mén-to
Significato Accomodamento; più comunemente, nel linguaggio della musica leggera e jazz, adattamento di una composizione per organici diversi da quelli concepiti originariamente
Etimologia da arrangiare, prestito dal francese arranger ‘disporre, sistemare’ e propriamente ‘mettere in fila’, derivato di rang ‘fila, ordine’ col prefisso a-.
Parola pubblicata il 27 Ottobre 2024
Le parole della musica - con Antonella Nigro
La vena musicale percorre con forza l'italiano, in un modo non sempre semplice da capire: parole del lessico musicale che pensiamo quotidianamente, o che mostrano una speciale poesia. Una domenica su due, vediamo che cos'è la musica per la lingua nazionale
Prima del Novecento, la parola arrangiamento e il verbo arrangiare si riscontravano raramente in italiano. Del resto, nello Stivale questi lemmi erano arrivati appena nell’Ottocento; tuttavia, in particolare dal secondo dopoguerra in poi, si moltiplicarono a dismisura. Il fenomeno avvenne parallelamente alla diffusione di generi musicali leggeri importati dall’America, e soprattutto del jazz.
In italiano arrangiamento giunge come prestito dal francese arrangement, derivato da arranger (ossia ‘disporre in un dato ordine’), che nel Medioevo attraversò il canale della Manica, attestandosi nell’attuale termine omografo inglese. La lingua del Sì per esprimere significati analoghi usava piuttosto verbi come accomodare o acconciare; di arrangiare non se ne parlava proprio.
Nella moderna forma riflessiva, il verbo arrangiarsi («l’hai voluto tu: arrangiati!»), deriva invece dallo spagnolo rancharse, che significa alloggiarsi, accamparsi (alla meglio). In comune con il termine francese c’è il poco riconoscibile antenato francone hring ‘cerchio, raccolta’.
Passando dalle parole ai fatti, la prassi di adattare una composizione musicale per organici diversi da quelli originari è antica. Nel Rinascimento l’editoria musicale si prodigò a diffondere numerose versioni liutistiche o per tastiera di musica vocale, gettonatissime perché consentivano di suonare solisticamente composizioni polifoniche vocali famose, che altrimenti avrebbero richiesto vari esecutori. Per ottenere un risultato soddisfacente, era necessario conoscere le caratteristiche organologiche degli strumenti di destinazione.
Comunque, le esecuzioni all’epoca si realizzavano spesso con i mezzi di cui si disponeva, anche improvvisando, senza scrivere nulla. Un violino o un cornetto sostituivano al volo un soprano assente, un trombone suonava la parte di un cantante basso e le parti vocali di un mottetto potevano essere accomodate per l’organo: ma mai arrangiate.
La consuetudine seguitò nei secoli successivi; i salotti ottocenteschi ospitavano valenti esecutori che eseguivano al pianoforte composizioni sinfoniche o da camera, oppure opere liriche ridotte per canto e pianoforte. Queste nuove versioni si mantenevano musicalmente fedeli agli originali, riproducendo melodie e armonie del prototipo iniziale. Gli stessi compositori, poi, strumentavano i propri lavori orchestrandoli per organici diversi da quelli originari.
Le cose cambiarono con l’avvento della musica leggera e con l’influenza della cultura statunitense, in particolare del jazz, a cominciare dagli anni Venti del Novecento. L’arte dell’arrangement si sviluppò infatti in una società dove l’industria musicale era febbrilmente al servizio dell’editoria musicale, degli impresari, del cinema, della radio, della televisione, delle case discografiche, dei teatri e delle agenzie pubblicitarie. Perciò, anche se in pratica orchestrare, strumentare o adattare sono azioni equivalenti all’arrangiare, si riferiscono a repertori della musica classica occidentale.
C’è un’altra differenza: musicisti come Duke Ellington o Glenn Miller reinterpretarono liberamente molte composizioni, riarmonizzando melodie conosciute. Fuori dell’ambito classico, divenne perciò lecito alterare armonia, forma o valori ritmici di una composizione. Si giunse ad arrangiamenti che sollevarono critiche, come quello in stile disco music di Walter Murphy, A Fifth of Beethoven del 1976, incluso tra le musiche de La febbre del sabato sera. Riscosse incassi e successi notevolissimi ma, diversamente da quello che propagandava la stampa dell’epoca, non contribuì affatto ad avvicinare il pubblico alla musica classica.
Nel 1969, durante la guerra in Vietnam, Jimi Hendrix propose invece una celebre versione di quello che è considerato l’inno nazionale statunitense. Eppure, sebbene finalità e risultati fossero lontani da quelli di Murphy, anche la sua musica finì nell’ingranaggio dell’industria musicale.
Dunque il confine tra orchestrazione, strumentazione, versione, elaborazione o arrangiamento può essere sottile, ma l’ultimo termine non si usa nella musica colta. Attenzione: vale per gli italiani, non per gli inglesi o i francesi, che chiamano arrangement qualsiasi versione diversa dall’originale. Per esempio, Johann Nepomuk Hummel adattò le sinfonie di Beethoven per pianoforte, flauto, violino e violoncello. La sua versione riporta sullo spartito «arrangée pour piano…» e il video della più nota piattaforma internet per questo tipo di contenuti, sintetizza «Arr. J.N. Hummel». Da una lingua all’altra le parole cambiano, ma la musica no.