Bicchiere

bic-chiè-re

Significato Piccolo recipiente in cui si versa il liquido da bere; quantità di liquido che contiene

Etimologia dall’antico francese bichier, che viene dal greco bîkos ‘anfora per il vino’, forse attraverso l’ipotetica voce del latino parlato bicarius, o forse attraverso quella francone, parimenti ipotetica, bikāri.

Un’altra parola fondamentale, come molte parole fondamentali misteriosa. Non la vediamo nascere: in italiano compare già adulta e diffusa, e i suoi trascorsi battono l’Europa su lingue diverse.

Sembra pacifico che derivi dall’antico francese bichier, ma già di qui in poi i sentieri si biforcano. Secondo alcuni è un derivato dell’ipotetica voce fràncone bikāri, secondo altri invece passa dal latino parlato, per una voce ricostruita come bicarius. Questa deriverebbe dal greco bîkos, l’anfora per il vino — un termine che peraltro è entrato nelle lingue germaniche molto precocemente, e quindi ha in effetti percorso entrambe le vie. Se nei laboratori chimici si usano come recipienti i becher, prestito dal tedesco, è proprio perché anche Becher è un termine di questa pianta (in antico alto tedesco behhari significa ‘coppa, boccale’).

Oltre al nome, in effetti anche l’invenzione del bicchiere è qualcosa che si perde in una notte impenetrabile, di cui si possono ricostruire per ampia parte solo linee generali: facile pensare che l’utensile che permette di superare la giumella, il recipiente delle due mani giunte, sia di antichità vertiginosa. E ovviamente ne sono stati fatti di ogni materiale, dai più grezzi ai più opulenti, anche se per eccellenza — e non da ieri — il bicchiere è di vetro, che inerte e trasparente non altera il sapore ed esalta la luminosità della bevanda. Già la cultura ellenistica, negli ultimi secoli prima di Cristo, aveva portato il bicchiere di vetro al livello di una fattura squisita, e nella Roma imperiale arrivò ad essere un bene relativamente comune.
Dopo le semplificazioni medievali, sarà a Venezia che rinascerà ai suoi fasti.

‘Bere un bicchiere’ è il caso più classico della figura retorica della metonimia, che fra le altre cose ci offre una continuità di significato fra contenitore e contenuto. Ed è sorprendente vedere come fosse già in uso, quando il termine ‘bicchiere’ si è affacciato alla lingua scritta. In altri termini, la semplicità del bicchier d’acqua, o di quello di vino, è uno dei fili rossi della nostra lingua fin dai suoi albori — testimonianza in più di quale fatto straordinario sia condividere gran parte della propria lingua con nonni e nonne del medioevo.


E mentre
cerca invano di bere
freddo ormai il cappuccino
(la mano le trema: non riesce,
con tanta gente che esce
ed entra, ad alzare il bicchiere)
ritorna col suo pensiero
(guardando il cameriere
che intanto sparecchia, serio,
lasciando sul tavolino
il resto) al suo bambino.

Giorgio Caproni, “Ad portam inferi”, in “Il seme del piangere”

Per Caproni la poesia ha una funzione precisa: aiutarci a capire ed esprimere quello che ci accade tutti i giorni. Per questo deve portarsi dentro tutto il nostro quotidiano, rivelando anche nelle cose più banali significati e valori cui non avevamo pensato.

Può mostrarci, per esempio, che ogni oggetto è una barriera che opponiamo al nulla: quel non-essere da cui proveniamo e che sembra destinato a reinghiottirci. Nella poesia Ad portam inferi Annina, la madre del poeta, si trova appunto sulle soglie della morte, in attesa del suo ultimo treno. Perciò si aggrappa agli oggetti più minuti, quasi potessero salvarla: cerca la matita nella borsetta, stringe il bicchiere del cappuccino...

Più spesso è un bicchiere di vino a far da protagonista, simboleggiando la coraggiosa allegria di chi sa che il nulla è appena fuori dalla porta, ma appunto per questo vuole gustare ogni istante: assaporare il calore dell’amicizia (La piccola cordigliera) e dei propri ricordi (Prudenza della guida). Perfino Dio si fa tentare da un ultimo bicchiere nel Rifiuto dell’invitato; come a dire che nel vino rimane l’ultima traccia di quella salvezza che gli uomini di oggi non si permettono più di sperare.

Certo è una difesa fragile, forse un’illusione. Per questo i bicchieri di Caproni sono spesso scossi da un tremito che rende impossibile bere: un simbolo dell’angoscia esistenziale, ma anche uno straziante ricordo di quando Olga, la sua fidanzata, morì di setticemia. Nel parossimo della febbre la ragazza chiese un bicchiere d’acqua, ma tremava tanto che i denti le sbattevano contro il bicchiere. Tuttavia, rifiutandosi di ammettere quanto le sue condizioni fossero gravi, rimproverò il fidanzato con stizza: “Non sei neanche capace di reggere un bicchiere!” Allo stesso modo l’Annina di Ad portam inferi, mentendo a se stessa, attribuisce il tremito alla “gente che esce e che entra”.

In effetti la forza della morte è tanto soverchiante da tingere di sé anche gli oggetti che le si oppongono. Così il bicchiere stesso può diventare un’immagine del nulla; soprattutto il bicchiere sporco di latte, in cui sembra che la nebbia si sia solidificata. E l’aldilà si trasforma un bar dove Proserpina “sciacqua i nebbiosi bicchieri” (Le stanze della funicolare).

In ogni caso il bicchiere contiene un mistero irriducibile, come tutte le cose che, con la loro sola presenza, ci interrogano quotidianamente sul senso del nostro esistere: “Guardava il bicchiere. Fisso. / Quasi da ridurlo in schegge. / Sapeva che il bicchiere dura / più di chi in mano lo regge?” (All’osteria).

Parola pubblicata il 15 Ottobre 2022

Giorgio Caproni, le parole - con Lucia Masetti

Ci avventuriamo insieme in un viaggio insolito — cioè nelle parole di un poeta grande e poco conosciuto del secolo scorso, Giorgio Caproni, a cui dedichiamo una settimana di pubblicazioni a tema.