Destino
de-stì-no
Significato Corso delle cose considerato come predeterminato e indipendente; sorte futura
Etimologia da destinare, voce dotta recuperata dal latino destinare, derivata del verbo ricostruito come -stanare attestato solo in derivati, che è da stare, con prefisso de- col significato di ‘completamente’.
Parola pubblicata il 11 Aprile 2024
Ignazio Silone, le parole - con Lucia Masetti
Entriamo nell'opera di un autore, grande ma non altrettanto conosciuto, della nostra letteratura del secolo scorso: Ignazio Silone, a cui dedichiamo una settimana di pubblicazioni a tema.
Certo che il destino, il corso predeterminato degli eventi e dell’esistenza in particolare, ha l’aria di essere un concetto antichissimo. È così; ma il latino aveva altre parole per indicarlo, come il famoso fatum da cui il ‘fato’: il verbo destinare c’era, ma era un altro paio di maniche.
Aveva un tratto molto pragmatico. Destinare significava ‘fissare’ in senso concreto, cioè assicurare, legare, fermare. Per estensione arrivava a uno stabilire, un designare, un assegnare (quale è anche il nostro destinare, quando vengo destinato a un nuovo ufficio o vengono destinati nuovi fondi). Sono modi di legare, di fissare fra loro elementi del mondo — modi figli di un ipotetico -stanare latino (non c’entra con lo ‘stanare’ italiano) che è un derivato di stare, che non è mai isolato e si trova solo in poche parole. Fra queste, l’obstinare, da cui ‘ostinare’, ‘ostinato’ e via dicendo (a tutti gli effetti e simpaticamente, gli unici parenti in vita del destino e del destinare). Il destinare (con un de- che è un ‘completamente’) è un legare e un fissare che nel destino prende una dimensione superiore, quella che legge le vicende del mondo come già scritte dapprima secondo un inalterabile copione.
Una lettura trascendente ma soprattutto narrativa degli eventi del mondo — che è e resta paradossale. Perché il destino, immutabile e indipendente, è inaccessibile nella sua porzione futura, tanto che il destino diventa il futuro in genere. E finisce per avere molto a che spartire con la sorte nella sua accezione più fortuita, che ha il profilo di un tiro di dadi. Due idee che stranamente non confliggono — a priori destino e caso tacciono, a posteriori destino e caso sono cronaca. Ma il destino continua a custodire un’aura da storia autentica.
Silone non amava la parola destino, troppo spesso maschera di una colpevole passività. Ma, anziché eliminarla dal suo vocabolario, preferì darle una nuova veste.
Per lui il destino divenne la potenzialità specifica che ognuno di noi si porta dentro e che è chiamato a sviluppare fino alla piena maturazione, come il seme che diventa albero (James Hillman esprime lo stesso concetto con la metafora della ghianda).
La vita è dunque un compito, che è insieme molto facile e molto difficile. Facile, perché la felicità non è da inventare, ma da scoprire: si tratta di sviluppare qualcosa che c’è già. Facile anche perché le circostanze, per quanto ostili appaiano, sono in realtà il partner della danza, l’occasione per avvicinarsi passo passo a quello che si è.
Nello stesso romanzo infatti Silone argomenta che non esistono “vite arbitrarie”, perché “ognuno […], secondo la materia di cui è fatto, attira a sé fin dai primi anni le esperienze decisive che dànno l’impronta all’anima, fanno che Muzio sia Muzio, e non Caio. […] Come la spina dorsale sul corpo, come i fili in un tessuto.”
La difficoltà, d’altra parte, sta nel fatto che nessuno può svolgere il compito al posto nostro: ognuno è, nello svolgimento della propria specifica missione, insostituibile. “Vorrei dire due o tre cose prima di morire, che nessun altro può dire perché il destino le ha affidate a me”, ha scritto Silone in una lettera.
Inoltre il pericolo di essere inavvertitamente sleali con se stessi, mancando così la propria vita, è piuttosto alto. Anzitutto perché c’è sempre la tentazione di “lasciarsi vivere”, facendosi modellare solo dagli eventi e dalle aspettative esterne. Possiamo condurre la vita più spumeggiante di questo mondo, ma i nostri giorni sono privi di significato se non ci portano più vicino al compimento del nostro destino, se cioè – dice Silone citando André Malraux, non trasformiamo “la nostra esperienza in coscienza.”
Per di più, se anche viviamo con profondità e consapevolezza, chi ci assicura che non mancheremo comunque il bersaglio? In fondo noi stessi non ci conosciamo mai del tutto, né possiamo prevedere appieno l’impatto che avranno le nostre decisioni.
Vero, risponde Silone: c’è una parte di mistero nelle cose, che non si può controllare ma a cui ci si può affidare. Aderire al proprio destino significa anche questo: camminare con la speranza che alla fine, per quanto la meta ci sia oscura, arriveremo dove dobbiamo arrivare, inconsapevoli e sicuri come gli uccelli migratori.