Maschera

L'italiano sul palcoscenico

mà-sche-ra

Significato Finto volto con fattezze umane o animali, di solito con fori per gli occhi e per la bocca, indossato per schermare il viso e contraffare l’aspetto per fini disparati; personaggio fortemente tipizzato; costume carnevalesco; rappresentazione di un sentimento o di un modo d’essere attraverso una marcata espressione del volto

Etimologia etimo incerto, probabilmente da masca.

Non ci deve stupire che l’etimologia di questa parola sia incerta e discussa. La storia di questo oggetto è più vecchia di tutte le lingue che vivono nel mondo: per farci un’idea, le più antiche maschere ritrovate sono del neolitico preceramico (parliamo di circa novemila anni fa), e sono scolpite nella pietra. E anche ricostruire la storia del nome ‘maschera’ richiede ricerche su tempi precedenti alla scrittura.

È plausibile che questo termine, risalente al Duecento, (da cui il medio francese masque e l’inglese mask) derivi da ‘masca’, un termine particolarmente vitale nel nord ovest dell’Italia, fra Piemonte e Liguria, con interessanti corrispondenze nelle vicine lingue dell’occitano, dell’antico provenzale, e che troviamo anche nel latino medievale; forse questa parola ci fa intravedere un termine non solo preromano, ma preindoeuropeo, precedente alle migrazioni dell’era agricola. Una radice che ci parla di nero, di scuro, di fuliggine, di nuvole temporalesche, di spettri, di streghe. E quindi di qualcosa che copre il viso — magari nella maniera più facile: con della pittura, con il nero della fuliggine.

Il volto è antropologicamente così importante che mettere un volto finto sopra il proprio è un’azione che coinvolge aspetti primari di molte civiltà. Gli scopi della maschera sono da sempre i più diversi: rituali, con ruoli magici che vanno da una serietà funerea a una matta giocosità; bellici, per spaventare i nemici; e naturalmente di spettacolo, per dare una caratterizzazione immediata e precisa all’attore e alle sue azioni. Ed è proprio sul fronte della drammatizzazione che la maschera, in italiano, prospera.

Non solo perché passa a indicare in maniera più leggera l’interezza di un travestimento, che magari lascia perfino il viso scoperto (pensiamo ai balli in maschera, alle feste in maschera), ma soprattutto perché diventa termine teatrale, per indicare personaggi fissi della commedia dell’arte, eredi di tradizioni precedenti, che affondano nelle prime intuizioni del teatro italico. I latini avevano un termine curioso per indicare la maschera: ‘persona’.

Così, quando rifacendoci alla capacità di nascondere e di fingere conferita dalla maschera ne facciamo un elemento ipocrita (peraltro in greco l’hypocrités è l’attore) parlando della maschera di amichevolezza messa su da chi ci vuole turlupinare, della maschera di dispiacere mostrata da chi invece gioisce, parliamo sempre di teatro, così come quando parliamo, senza finzioni, della maschera di orrore che ci si dipinge in volto davanti all’evento terribile, alla maschera di letizia che la bella notizia non ci leva più. Una parola che ci mette davanti al vero e al falso del nostro volto, insieme.

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Il teatro in Italia nacque molto prima dell’italiano e, in un certo senso, furono degli immigrati a introdurlo. Escludendo le forme più arcaiche, infatti, il teatro nacque in Grecia nel V secolo a.C. ma, siccome moltissimi greci erano migrati in Sud Italia nel corso dei secoli precedenti, la nuova arte si diffuse subito anche qui. Si costruirono teatri, alcuni, come quello di Siracusa, in funzione ancora oggi; e l’inventore stesso della tragedia, Eschilo, finì i suoi giorni in Sicilia (ucciso, si dice, da un rapace che gli fece accidentalmente cadere una tartaruga in testa).

Nel frattempo, un po’ più a nord, era nata una piccola città di origini contadine, abitata da un popolo piuttosto rozzo e bellicoso. La cittadina si chiamava Roma, e in 500 anni mise in piedi l’impero più importante della storia occidentale. Nel farlo conquistò, tra le altre cose, la Grecia, ma restò a sua volta conquistata dalla sua cultura: perciò, con la proverbiale furbizia italica, la copiò.

Nacque così il teatro latino, che trovò poi la sua anima autentica e originale nelle commedie di Plauto. Con la sua comicità un po’ grossolana Plauto avvolgeva il pubblico in un turbinio di gag, condite da una mirabolante inventiva verbale. Trama e personaggi, al contrario, erano alquanto ripetitivi. Nel teatro greco infatti c’era un numero limitato di parti, ciascuna identificata da una maschera; a Roma quest’uso si perse ma i personaggi rimasero figure stereotipate. Le più importanti erano il giovane innamorato, squattrinato e un po’ svampito, il suo antagonista, ossia il vecchio avaro, e il suo aiutante, il servo furbo.

Quest’ultimo è il vero motore della storia: maestro nell’arte d’arrangiarsi, architetta beffe tali da trionfare su personaggi molto più potenti di lui. Il suo obiettivo nella vita, però, è semplice: godersela il più possibile. Tant’è che il suo costume prevedeva una pancia imbottita e un enorme fallo di cuoio che sbucava dalla tunica. D’altro canto, nella commedia Pseudolus, il servo si rivela una controfigura dell’autore stesso: “Come il poeta, di fronte alla pagina bianca, cerca quello che non esiste da nessuna parte eppure lo trova, così io stesso diventerò poeta, e quei soldi che non esistono da nessuna parte li farò saltare fuori.” Gaudente, ribelle, poeta e self made man: questo è il servo latino che avrà, lo vedremo, una lunga discendenza.

Parola pubblicata il 11 Novembre 2019

L'italiano sul palcoscenico - la Settimana della lingua italiana nel mondo 2019 (in India)

Su incarico dell'Istituto Italiano di Cultura di Mumbai, oltre che del Consolato Generale d'Italia a Mumbai e con l'associazione dell'Istituto Italiano di Cultura di Nuova Delhi, la settimana dall'11 al 17 novembre vi proponiamo un ciclo di sette parole con cui ripercorrere la storia del teatro in Italia, da quello antico al contemporaneo: festeggeremo così la XIX Settimana della lingua italiana nel Mondo (in India è differita a questa settimana). Questa edizione gravita sul teatro e l'opera: le parole sono di Giorgio Moretti, gli approfondimenti sul teatro di Lucia Masetti.