Liberale

li-be-rà-le

Significato Generoso, magnanimo; fautore del liberalismo; mentalmente aperto e rispettoso delle libertà altrui

Etimologia voce dotta recuperata dal latino liberalis ‘proprio, degno di uomo libero’, e anche ‘nobile, generoso’, da liber ‘libero’.

«Il liberalismo, prima che una questione di più o di meno in politica, è un'idea radicale della vita: è credere che ogni essere umano debba essere libero di adempiere il proprio individuale e inalienabile destino».

A dar retta a quanto scritto quasi un secolo fa dal filosofo spagnolo Ortega y Gasset, chi mai potrebbe rigettare la qualifica di liberale? D’altra parte, non solo il latino liberalis deriva da liber ‘libero’ – e come essere contrari alla libertà? –, ma il suo significato originario è ‘degno di un uomo libero’; perciò le arti liberali (come la grammatica, la geometria, la dialettica) erano dette così: in quanto vi si dedicavano persone libere dal bisogno di guadagnarsi da vivere, ossia di condizione sociale elevata. Logico quindi che liberale significasse anche ‘nobile, generoso, magnanimo’. Poi, tra il 18° e il 19° secolo, quando il termine ha assunto un significato politico, essere liberale equivaleva ad essere fautore della libertà, contro le monarchie assolute. E anche qui, chi mai avrebbe da ridire? Tutti liberali, quindi? Un momento.

Il nocciolo del liberalismo è la difesa della libertà e dei diritti dell’individuo, limitando al massimo l’intervento dello Stato nella sfera personale, sociale ed economica. Ma quali diritti e quali libertà?
Il diritto alla vita e alla proprietà, oltre che – appunto – alla libertà, declinata in due ambiti: quello individuale e sociale (libertà di pensiero, espressione, religione, associazione) e quello economico (libertà d’impresa e di mercato). È difficile negare che queste idee, che hanno accompagnato le grandi rivoluzioni del 17°, 18° e 19° secolo – dalla Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688 alla Rivoluzione americana, dalla Rivoluzione francese a quelle europee del 1848 –, all’epoca fossero progressive, in quanto sgretolatrici di un vecchio ordine inefficiente, autocratico e basato sul privilegio improduttivo del ‘sangue’.

Ma erano le idee di una precisa classe sociale, la borghesia, che era ben lungi dall’incarnare l’intera società – tanto più una società che dalla fine dell’Ottocento diventava di massa, con partiti che rappresentavano un punto di vista fino ad allora invisibile: quello di chi, nel gioco della ‘libera concorrenza’ economica lasciata a sé stessa (il liberismo, corollario economico del liberalismo), era sottomesso e soccombente. Emergeva così un’antinomia apparentemente insolubile per il liberalismo: come conciliare libertà e giustizia sociale. Per dirla con Norberto Bobbio: «libertà ed eguaglianza sono valori antitetici, nel senso che non si può attuare pienamente l'uno senza limitare fortemente l'altro».

E quale pensatore liberale poteva trovare il bandolo della matassa se non il massimo esperto di quadrature filosofiche del cerchio, ossia John Stuart Mill (1806-1873), che abbiamo già incontrato come uno dei più prominenti rappresentanti dell’utilitarismo?

John Stuart Mill nel 1870, liberale anche nella pettinatura.

Da una parte, nel Saggio sulla libertà Mill guarda con sospetto al socialismo – in cui la società tende a rivendicare una «giurisdizione sulle questioni private» –, enunciando il «principio molto semplice» che secondo lui è alla base del liberalismo: «che l'umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire nella libertà d'azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi (…), per evitare danno agli altri». La libertà di pensiero e di espressione è essenziale perché la diversità e il contrasto tra opinioni sono sempre un valore: se un’idea fosse giusta, infatti, sarebbe un danno per tutti che ne venisse proibita l’espressione; ma anche se fosse sbagliata, sarebbe comunque di stimolo alle idee comunemente accettate, che senza contraddittorio si fossilizzerebbero, diventando dogmi.

D’altro canto, nei Principi di economia politica (finito, significativamente, nell’Indice dei libri proibiti del 1856) si spinge dove nessun pensatore liberale si era mai spinto: pur ribadendo che nel comunismo «l’assoluta dipendenza di ciascuno da tutti, e la sorveglianza di tutti su ciascuno» potrebbero «ridurre tutti gli uomini ad una tetra uniformità di pensieri, di sentimenti e di azioni», riconosce che «le leggi che regolano la proprietà […] hanno, di proposito, alimentato le diseguaglianze, ed hanno impedito che tutti gli uomini iniziassero in condizioni di parità la loro gara nella vita», arrivando a scrivere che «le restrizioni imposte dal comunismo sarebbero libertà in confronto alle attuali condizioni della maggior parte della razza umana». Secondo lui, «l’approssimazione più vicina alla giustizia sociale» sarebbe un’economia basata sulle cooperative e la partecipazione dei lavoratori agli utili, che «unirebbe la libertà e l’indipendenza dell’individuo con i vantaggi intellettuali, morali ed economici della produzione associata».

Non ricorda molto da vicino, questo tentativo di conciliare libertà individuale e giustizia sociale ma senza intervento dello Stato, il progetto anarchico proudhoniano di una «sintesi dei concetti di proprietà privata e proprietà collettiva» attraverso libere associazioni federate di produttori? Solo che, mentre Mill voleva uno Stato il meno presente possibile, Proudhon lo voleva del tutto assente. Una differenza curiosamente sottile, tra un anarchico e un liberale. Ma è davvero sorprendente, considerato che l’ambizione di Mill – liberale assai sui generis, certo – era di conciliare libertà e uguaglianza, ossia precisamente il nocciolo dell’anarchismo?

Parola pubblicata il 21 Febbraio 2023

Le parole e le cose - con Salvatore Congiu

I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.