Etimologia voce dotta, presa in prestito dal latino òbvius ‘che si trova davanti’, derivato dell’avverbio òbviam ‘incontro’, che è dalla locuzione ob viam ‘contro la via’.
È una parola che affolla i nostri discorsi, nemmeno troppo discretamente. In effetti, per quanto sia raro soffermarsi sull’intimo significato dell’ovvio (dopotutto è ovvio, no?), è una parola che si fa notare, perché sa essere per molti versi retorica ed eccitante.
Si tratta di una voce dotta, presa in prestito e adattata dal latino nella seconda metà del Seicento. E per quanto in maniera disponente e accessibile, fin dalle prime attestazioni mostra un ragionamento sulle evidenze immediate della mente, sulla spontaneità, naturalezza e necessità di ciò che si presenta al pensiero. Insomma, la qualificazione di ciò che ovvio non è intellettualmente così primitiva, anche se oggi la usiamo a tappeto.
Ebbene, l’immagine da cui scaturisce è di una bellezza semplice: la locuzione avverbiale latina ob viam descrive letteralmente un ‘contro via’, che oggi diremmo ‘contromano’; ne scaturisce l’avverbio obviam che significa ‘incontro’, e poi l’obvius che è come sostantivo il passante che si incontra (!) per strada, mentre come aggettivo (da cui il nostro ‘ovvio’) chi o ciò che viene incontro, che si trova di fronte. Anche l’ovviare è etimologicamente un ‘andare incontro’.
Tale è l’evidenza dell’ovvio: ti viene incontro per via, non c’è modo di non notarla, di non incrociarla, anche se sei distratto o tenti la finta di non vederla. Ti si para davanti, facile, comune. Così parliamo delle ovvie conseguenze di un’azione, di un’implicazione ovvia rispetto alle premesse, di un’ipotesi ovvia. Ma, proprio per questo, qualificare qualcosa come ‘ovvio’ può avere esiti secondi, retorici e no.
Dobbiamo pensare al crinale che unisce l’ovvio allo scontato, al banale — come è sempre ciò che è pienamente e pianamente evidente; per cui il film dalla fine ovvia, una soluzione ovvia per un arredamento mancano di fantasia, di novità, peccano di pigrizia. Basta scendere di casa e ti vengono incontro, senza bisogno di essere cercate, senza lateralità.
Ma dobbiamo anche pensare all’effetto che fa il dichiarare ciò che è ovvio — un effetto variegato, di forte retorica. Se parlo di un ovvio pericolo (che in realtà è tutt’altro che ovvio), posso mettere in soggezione chi mi ascolta come se non avesse visto che cosa gli stava venendo incontro per la via; la citazione di un ovvio effetto lo presuppone come necessario, scontato, evidente, e genera complicità con chi ascolta, anche se è un effetto indimostrato; e se affermo che è ovvio che non penso questa cosa, sminuisco, minimizzo platealmente l’ipotesi (anche se è del tutto vera) — come puoi non vedere ciò che è ovvio?
È una parola morbida, calda, che significa un evidente dei più immediati, che ha lo spazio per mettere un piede nella dimensione del banale; eppure è insieme un sottile grimaldello di manipolazione. Dopotutto è una parola che genera un’impressione su un pensiero, e parole del genere sanno essere tutt’altro che innocue.
È una parola che affolla i nostri discorsi, nemmeno troppo discretamente. In effetti, per quanto sia raro soffermarsi sull’intimo significato dell’ovvio (dopotutto è ovvio, no?), è una parola che si fa notare, perché sa essere per molti versi retorica ed eccitante.
Si tratta di una voce dotta, presa in prestito e adattata dal latino nella seconda metà del Seicento. E per quanto in maniera disponente e accessibile, fin dalle prime attestazioni mostra un ragionamento sulle evidenze immediate della mente, sulla spontaneità, naturalezza e necessità di ciò che si presenta al pensiero. Insomma, la qualificazione di ciò che ovvio non è intellettualmente così primitiva, anche se oggi la usiamo a tappeto.
Ebbene, l’immagine da cui scaturisce è di una bellezza semplice: la locuzione avverbiale latina ob viam descrive letteralmente un ‘contro via’, che oggi diremmo ‘contromano’; ne scaturisce l’avverbio obviam che significa ‘incontro’, e poi l’obvius che è come sostantivo il passante che si incontra (!) per strada, mentre come aggettivo (da cui il nostro ‘ovvio’) chi o ciò che viene incontro, che si trova di fronte. Anche l’ovviare è etimologicamente un ‘andare incontro’.
Tale è l’evidenza dell’ovvio: ti viene incontro per via, non c’è modo di non notarla, di non incrociarla, anche se sei distratto o tenti la finta di non vederla. Ti si para davanti, facile, comune. Così parliamo delle ovvie conseguenze di un’azione, di un’implicazione ovvia rispetto alle premesse, di un’ipotesi ovvia. Ma, proprio per questo, qualificare qualcosa come ‘ovvio’ può avere esiti secondi, retorici e no.
Dobbiamo pensare al crinale che unisce l’ovvio allo scontato, al banale — come è sempre ciò che è pienamente e pianamente evidente; per cui il film dalla fine ovvia, una soluzione ovvia per un arredamento mancano di fantasia, di novità, peccano di pigrizia. Basta scendere di casa e ti vengono incontro, senza bisogno di essere cercate, senza lateralità.
Ma dobbiamo anche pensare all’effetto che fa il dichiarare ciò che è ovvio — un effetto variegato, di forte retorica. Se parlo di un ovvio pericolo (che in realtà è tutt’altro che ovvio), posso mettere in soggezione chi mi ascolta come se non avesse visto che cosa gli stava venendo incontro per la via; la citazione di un ovvio effetto lo presuppone come necessario, scontato, evidente, e genera complicità con chi ascolta, anche se è un effetto indimostrato; e se affermo che è ovvio che non penso questa cosa, sminuisco, minimizzo platealmente l’ipotesi (anche se è del tutto vera) — come puoi non vedere ciò che è ovvio?
È una parola morbida, calda, che significa un evidente dei più immediati, che ha lo spazio per mettere un piede nella dimensione del banale; eppure è insieme un sottile grimaldello di manipolazione. Dopotutto è una parola che genera un’impressione su un pensiero, e parole del genere sanno essere tutt’altro che innocue.