Strillare
stril-là-re (io strìl-lo)
Significato Gridare in tono acuto; sbraitare; sgridare
Etimologia secondo una ricostruzione classica, derivato dal latino stridulus ‘stridulo’, attraverso l’ipotetica forma parlata stridulare; forse, di origine onomatopeica.
Parola pubblicata il 31 Ottobre 2016
Scorci letterari - con Lucia Masetti
Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.
Parola molto espressiva, e fra le più precise del suo genere. Lo strillare non è un gridare senza connotati, ma un lanciare grida acute, stridenti o stridule, con un bel paio di polmoni. Classicamente strilla il bambino in preda alla bizza più feroce, strilla la folla di adolescenti al passaggio del cantante charmant, e un insolito strillare allerta tutto il vicinato.
Ma questo termine può prende pieghe diverse: col colore dell’iperbole può significare anche il parlare ad alta voce (non importa che tu strilli, sono qui), e con esiti ancor più precisi arriva fino allo sbraitare, al protestare, al risentirsi incandescente: il ragazzo strilla contro il controllore che sta per fargli una multa, il condomino strilla contro chi lascia le biciclette nell’androne. Inoltre, secondo registri familiari e usi regionali, strillare può essere usato transitivamente col significato di sgridare: la maestra strilla l’allievo che ha fatto lo sgambetto al compagno, i genitori ti strillano se torni a casa più tardi del pattuito.
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(Verga, Rosso Malpelo)
Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana. […] Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
La storia è tragica, e piuttosto nota: due ragazzini vengono sfruttati in una cava; uno muore precocemente di malattia, mentre l’altro cresce (e infine scompare) nel disprezzo generale.
Ma ciò che rende ancor più perturbante il contenuto è il contrasto con la forma. Il verbo “strillare”, infatti, è volutamente riduttivo: il dolore materno appare come un incomprensibile capriccio, cui si contrappone la logica “adulta” dell’utile.
Proprio quest’ultima, ovviamente, è l’oggetto della denuncia; ma – e qui sta il genio – Verga non ce la descrive dall’esterno, bensì la ingloba nella prospettiva del narratore (quella in cui, tendenzialmente, ci identifichiamo).
Perciò è come se ci dicesse: lettori miei, non pensate di essere innocenti. anche voi siete figli di questa mentalità, che sacrifica gli affetti al razionalismo e i valori morali al calcolo economico. Io la porto semplicemente all’estremo, perché possiate prenderne coscienza (Brecht, quarant’anni dopo, riproporrà una simile tecnica di straniamento).
Tuttavia, la scelta lessicale ha anche un valore psicologico: Malpelo usa un linguaggio inadeguato perché non ha le categorie per pensare ciò che sta accadendo. Non ha mai conosciuto l’amore, e non vede in sé alcun valore; perciò trova del tutto naturale che nessuno abbia mai temuto per lui.
Mi torna in mente un episodio raccontatomi da un’amica. Momento della merenda in un orfanotrofio, in Kenya: uno dei bambini finisce il proprio dolcetto e poi, con naturalezza, si accuccia sul lurido pavimento per raccogliere le briciole. In quel momento la mia amica ha compreso che, per quel bambino, la fame e la solitudine erano realtà normalissime, tanto da tradursi in gesti automatici.
Ecco perché questo passo di Verga mi fa correre un brivido lungo la schiena. Perché mostra un mondo dove il male è la norma, ed è il bene ad essere diventato uno scandalo.