Agogica
a-gò-gi-ca
Significato Il complesso delle fluttuazioni del ritmo musicale, solitamente indicate sulla partitura dall’autore e realizzate dall’interprete
Etimologia parola usata in epoca moderna dal musicologo tedesco Hugo Riemann (Musikalische Dynamik und Agogik, 1884) coniata sul latino agogē ‘condotto, canale’, ma che aveva anche il significato musicale di ‘scala di suoni’ (in relazione con agere ‘condurre, muovere’), dal greco agogé ‘condotta, trasporto, educazione’.
Parola pubblicata il 06 Febbraio 2022
Le parole della musica - con Antonella Nigro
La vena musicale percorre con forza l'italiano, in un modo non sempre semplice da capire: parole del lessico musicale che pensiamo quotidianamente, o che mostrano una speciale poesia. Una domenica su due, vediamo che cos'è la musica per la lingua nazionale
Se l’agoghé era la severa educazione impartita nell’antica Sparta, con Marziano Capella — grammatico vissuto tra il IV e il V secolo d. C. — la locuzione per agogen aveva acquisito valenza musicale, indicando una ‘successione ordinata di suoni’, interpretabile anche come ‘andamento melodico verso l’alto’.
Il moderno significato risale tuttavia al 1884, quando il musicologo Hugo Riemann introdusse la parola Agogik per indicare il complesso dei fenomeni che intervengono a modificare il ritmo regolare di una composizione musicale. Il fattore ‘tempo’ è infatti suscettibile di essere interpretato in molti modi. In fisica, come racconta Carlo Rovelli, il primo che tentò di dare una definizione convincente del concetto di tempo fu Aristotele. Per lui il tempo è la misura dei cambiamenti, una successione di eventi che mutano: alba, tramonto, un sasso che rotola fino a fermarsi.
L’esperienza ce lo fa percepire come una sequenza lineare di prima e dopo (spazio e tempo sono da sempre in correlazione tra loro). Un paio di millenni più tardi, Isaac Newton espose l’idea che il tempo avesse valore assoluto e che fluisse anche al di fuori della nostra esperienza. Se l’orologio si ferma, il tempo scorre lo stesso. Ci vollero oltre due secoli prima che Einstein realizzasse una sorta di sintesi tra il tempo aristotelico e quello newtoniano: entrambi esistono, ma non sono concetti assoluti e immutabili; al contrario, il tempo fluttua, si piega, si storce, rallenta, accelera… fino ad arrivare alla meccanica quantistica, che ci costringe a ripensare il concetto di tempo.
Con un volo pindarico, torniamo nel campo dell’arte musicale: anche qui il tempo si può deformare, nonostante sia sottoposto al ritmo, definito da Platone «ordine del movimento». Il tempo può mutare matematicamente, per esempio passando da un metro binario a uno ternario, oppure può essere rallentato o accelerato ad libitum, a piacere. L’adozione del giusto tempo esecutivo è una delle scelte più difficili, poiché caratterizza l’intera composizione. Come prima cosa, Beethoven chiedeva sempre a coloro che avevano assistito alla presentazione di una sua nuova opera di riferirgli quali tempi fossero stati scelti per eseguirla. Infatti, termini come allegro, lento, presto, ecc., pur rientrando nella sfera delle indicazioni agogiche, lasciavano margini interpretativi. Questo è il motivo per cui sulle partiture comparvero informazioni sempre più precise in merito. Beethoven fu il primo a basarsi sui valori del metronomo di Maelzel, fresco di brevetto, per indicare a che velocità dovesse essere suonata la sua musica.
Del resto, nel passato si ascoltava quasi esclusivamente la musica dei contemporanei, più correttamente interpretabile grazie alla possibilità di consultare direttamente l’autore. Ma se l’opera viene eseguita lontano dal suo artefice, le indicazioni agogiche diventano preziose. Un rischio del genere non si corre nell’ambito delle arti figurative: un dipinto o una statua vivono di vita autonoma, senza bisogno di nessun esecutore.
Le prime indicazioni agogiche si riscontrano all’inizio del XVII secolo negli scritti teorici e nelle partiture. Quando Monteverdi chiede di cantare «al tempo dell’affetto», o Frescobaldi di suonare portando la battuta «hor languida, hor veloce», si esprimono entrambi a livello agogico. Più tardi, di nuovo Beethoven scrive sullo spartito della sua Sonata Appassionata (a 00:47’’): «poco ritar-dan-do», dilatando la grafia sotto le note, e poi: «a tempo» e così via. Il pianissimo (pp) e il forte (f) sono invece dinamiche (cioè indicano variazioni d’intensità sonora) e non agogiche, ma tutto è scritto in italiano, la lingua internazionale della musica.
Se pensiamo ai valzer di Strauss trasmessi da Vienna il giorno di Capodanno avremo modo di ascoltare un’esecuzione musicale ricca di fluttuazioni agogiche. Ma quando la scansione del tempo è inesorabilmente regolare, come nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi in Inghilterra nel 2012, non c’è spazio per l’agogica.