Giorno
giór-no
Significato Periodo della rotazione terrestre, approssimato a ventiquattr’ore; periodo di luce dall’alba al tramonto
Etimologia dal latino (tempus) diurnum ‘tempo del giorno’, da diurnus ‘diurno’, derivato di dies ‘giorno’.
Parola pubblicata il 04 Ottobre 2019
Lo sappiamo, anche se riuscire a immaginarlo è un’altra cosa: c’è stato un tempo in cui in Italia tutti parlavano latino, dai contadini ai notabili — vabbe’, non parlavano tutti proprio lo stesso latino, c’erano i dotti e gli incolti. Ma un folto numero di nostri avi, nonni e nonne, per chiamare il periodo di luce della corsa del sole usavano il termine ‘dies’. Altrimenti, in un latino più tardo, potevano anche parlare di tempus diurnum, ‘periodo di luce’, volentieri sottintendendo tempus e parlando solo del diurnum (peraltro derivato di dies).
La disgregazione dell’Impero d’Occidente fu anche una disgregazione linguistica: la grande capillare macchina imperiale smise di pompare il latino nelle sue membra, e dai ristagni locali nacquero le lingue romanze o si affermarono lingue di altri ceppi. Certi filoni dotti di lingua latina si conservavano relativamente puri: gli studiosi parlavano la lingua dei libri antichi che copiavano e studiavano e commentavano, la Chiesa parlava latino. Invece in Italia la lingua del volgo lentamente tralignò, smise di essere latino e nacquero gli idiomi volgari. E i discendenti di quei nostri nonni giovanotti, gagliardi e vissuti in anni difficili, che dicevano diurnum, di generazione in generazione iniziarono a pronunciare queste parole in maniera diversa, cambiandole pian piano e con naturalezza.
In quei secoli del medioevo, chi scriveva scriveva in latino. Ma dalle brume del Millecento emergono cose sorprendenti: appaiono dei memoratori (note ufficiali da conservare) e delle rappresentazioni che non sono in lingua latina, ma in una lingua nuova — non certo nazionale e senza le grandi vocazioni della scuola siciliana o di quella toscana, ma nemmeno primitiva, anzi abbastanza tornita da farci sospettare di essere arrivati a letteratura iniziata. Fra questi ci sono il Memoratorio del Monte Capraro (foglietto che registra alcune clausole della consacrazione di una chiesa molisana) e il Ritmo di Sant’Alessio, una rappresentazione giullaresca in versi della vita del santo (probabilmente marchigiana). Dentro ci leggiamo le parole iurni e iurnu. Sono le fotografie del girino che ha messo le zampe, le prime attestazioni: diurnum diventa iurnu, che diventa giorno (così lo scriverà già Dante). Una testimonianza formidabile di come la via popolare abbia tramutato le parole latine di bocca in bocca, di genitori in figli.
Ma qui noi abbiamo il quadro completo: il ‘diurnus’ non ha solo dato vita per via popolare al giorno. Nel Duecento, persone dotte che conoscevano e usavano consuetamente il latino, hanno recuperato il diurnus, che si era perfettamente conservato dai vecchi tempi nella teca di quella lingua alta, e lo hanno adattato in diurno — che cucito sull’originale non solo gli assomiglia molto, ma si mantiene aggettivo, e racconta ciò che è relativo al giorno.
Poi sì, resterebbe da dire che il giorno ci significa sia il periodo approssimato di ventiquattr’ore in cui la terra fa il suo giro, sia più strettamente il tempo della luce quotidiana fra alba a tramonto, contrapposto a notte; resterebbe da parlare della distanza misurata in giorni di viaggio, o di come il giorno sia volentieri caratterizzato con clima e feste, dal giorno di pioggia a quello di Natale; e soprattutto resterebbe da spendere una parola su come parlare di un periodo storico chiamandolo ‘giorni’ — i giorni andati, «In quei giorni» — abbia il potere di evocare non un tempo astratto, ma una quotidianità che è stata come fu quella della nonna e del nonno che dicevano dies e come ora è questa di questo nostro giorno. Ma per questo giorno ne abbiamo dette abbastanza.