Arridere
ar-rì-de-re (io ar-rì-do)
Significato Sorridere, guardare con affetto; essere propizio, favorire; piacere, tornare gradito
Etimologia dal latino arridere, composto di ad- ‘verso’ e ridère.
Parola pubblicata il 19 Giugno 2017
Scorci letterari - con Lucia Masetti
Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.
È sempre stupefacente vedere come un semplice prefisso riesca a trasfigurare una parola.
L’arridere, più che un’azione, descrive una disposizione. Innanzitutto è un guardare sorridendo, con affetto, con compiacimento: il professore arride ai temi acuti, il nonno arride ai nipoti. Tant’è che in uso letterario, transitivo, diventa il rendere lieto, festoso: i profumi delle sere d’estate ci arridono.
Il passo figurato è brevissimo e splendido: arride ciò che è propizio, ciò che ci favorisce. Classicamente, ci arride la fortuna, ci arride la giovinezza, ma pure ci arride un carattere intimamente calmo e disteso, ci arride il talento. Inoltre, con un ulteriore piccolo passo, arride ciò che porta piacere, ciò che torna gradito: lo spettacolo arride alla platea, l’elezione arride a chi ha sostenuto il candidato vincente. Infine, tale disposizione arriva al concedere generosamente (in un registro letterario): l’alba arride meravigliosi colori, l’amico musicista ci arride le sue romantiche composizioni.
L’articolazione di questi significati è complessa, e potrebbe essere ancora più dettagliata: ma già questo piccolo quadro vale a mostrare che ciò conta è la sua coerenza, stretta intorno all’immagine pulita ed eloquente di un ‘ridere verso’.
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(Dante, Paradiso XXXIII, vv. 124-126)
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te, ami e arridi!
Siamo arrivati al punto teologicamente più denso della Commedia: una sola terzina riassume interi volumi di teologia. La Trinità “siede” in se stessa (cioè nessun luogo fisico la ospita) ed è “sola”, ossia unica. Ma la dinamica interna è complessa: il Padre “intende” il Figlio e viceversa, in un rapporto conoscitivo al tempo stesso biunivoco e riflessivo (Dio conosce se stesso). Da qui la ripresa circolare dei verbi, espressione di una profonda armonia e di un altrettanto abissale paradosso. Dalla conoscenza, poi, si genera l’amore, ossia lo Spirito (ad ulteriore riprova di quanto amore e conoscenza siano, per Dante, strettamente intrecciati).
L’ultima parola, però, è la più rivoluzionaria; ed è ancor più sorprendente se ci si immagina il Medioevo come un periodo masochisticamente cupo.
La Trinità, per Dante, ride. Ed è proprio questo riso che dà origine al mondo. È straordinario a pensarci: un’intera creazione originata da un soprassalto di allegria. Come il riso di un bambino, che non ha altra ragione se non mostrare la gioia che gli scoppia dentro.
Del resto Dante (e lo stilnovo in generale) ha sempre dato importanza al sorriso, in particolare a quello femminile. La sua sola vista scaccia ogni pensiero meschino, e induce una beatitudine paradisiaca. Cioè è un assaggio dell’immensa gioia che, secondo Dante, ha dato origine a tutto, e verso la quale ogni uomo è diretto.
Per questo, man mano che Dante si è avvicinato a Dio, la bellezza di Beatrice è diventata sempre più abbagliante. Finché, nel capitolo XV, lui si è incantato «stupefatto» a guardarla: «ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio Paradiso.»
Dunque non solo la Trinità ride, ma la sua risata risplende nel volto della persona amata. E perciò ogni sorriso può essere, per qualcuno, un anticipo di Paradiso.