Beneficio
be-ne-fì-cio
Significato Favore, giovamento, vantaggio; terra concessa dal sovrano al vassallo; beni e redditi assegnati a un chierico in virtù della carica ecclesiastica che ricopre
Etimologia dal latino beneficium, composto di bene e dal tema di fàcere ‘fare’.
Parola pubblicata il 02 Dicembre 2016
Le parole della storiografia - con Alessandra Quaranta
Con Alessandra Quaranta, giovane dottoressa di ricerca in Storia, un venerdì ogni due vedremo quali sorprese sappia riservare un approccio storiografico alle parole più consuete.
Oggi ‘beneficio’ indica sia l’azione compiuta al fine del bene altrui sia il frutto di questa azione (un dono, un favore, un servizio). Il suo significato ha a che fare con qualcosa che ci viene generosamente concesso – dalla volontà divina o dalla fortuna, dalla legge, da un contratto di lavoro o da un patto, dall’appartenenza a una determinata istituzione, dal clima, da una particolare congiuntura di fattori.
questa accezione è in via generale legata all’uso che nell’Alto Medioevo si faceva del termine ‘beneficio’. Di origine latina, esso indicava le terre che il sovrano concedeva per un certo periodo di tempo, in uso precario e non in proprietà, al suo vassallo. ‘Beneficio’ ha il suo corrispondente nel germanico ‘feudo’: entrambi indicano lo stesso concetto. Ancor prima della conquista da parte dei Romani, foehu identificava il bene più prezioso per le popolazioni germaniche, non stanziali e non dedite all’agricoltura: il bestiame [‘feudo’ è composto da due termini del tedesco antico: foehu (bestiame) e od (possesso)].
Il rapporto tra colui che concedeva (concedente) e colui che riceveva la terra (concessionario) era sancito dalla cerimonia dell’omaggio, durante la quale il vassallo affidava se stesso, i propri familiari e i propri beni alla protezione del sovrano, dotato di terre, cavalli ed equipaggiamento militare. In cambio della protezione e della terra ricevute, il vassallo si impegnava a servire il sovrano, a prestargli aiuto militare, a fornirgli consigli, a svolgere incarichi per suo conto (anche di rappresentanza verso piccole comunità o altri signorotti locali). Alla morte del vassallo il terreno concesso in beneficio tornava nelle mani del signore.
All’omaggio seguiva la cerimonia della fede. Ponendo solennemente la mano sulle Sacre Scritture, e chiamando a testimone Dio stesso, il vassallo prestava giuramento di fedeltà al suo signore. Il giuramento legava signore e vassallo con un patto di reciproca lealtà che durava fino alla morte di uno dei due, ma sanciva un rapporto squilibrato dal punto di vista sociale e giuridico: il vassallo veniva infatti a trovarsi in una posizione di piena subordinazione e dipendenza dal suo signore.
Il rapporto di tipo feudale conobbe una rapida diffusione durante il Regno di Carlo Magno e dei suoi successori: infatti, i grandi signori (vassalli maggiori) cominciarono a seguire l’esempio del sovrano, e a procurarsi a loro volta dei vassalli ai quali cedevano parte del loro patrimonio terriero.
Dopo la morte di Carlo Magno (814), tuttavia, la regola secondo cui la terra concessa in beneficio doveva tornare, alla morte del vassallo, nelle mani del signore cominciò a essere violata. I figli dei vassalli morti cominciarono a pretendere in eredità il feudo che era stato concesso ai loro padri. La pratica di prendere possesso dei feudi si inveterò a tal punto che Carlo il Calvo dovette concedere l’ereditarietà dei feudi di maggiore estensione (capitolare di Quierzy - 877).
Nel diritto canonico ‘beneficio’ aveva un significato simile, definendo quella porzione di beni assegnata in perpetuo a un chierico che ne poteva godere i frutti, purché adempisse al suo ministero. Il beneficio vescovile, per esempio, indicava le terre conferite a chi veniva insignito della carica di vescovo, e quest’ultimo aveva il diritto di percepire una rendita dalle terre ricevute in beneficio. Ben presto però, nella pratica di concessione di benefici si insinuò il malcostume, tanto che i primi sostenitori della Riforma protestante in Italia fecero dell’accumulo dei benefici da parte dei vescovi uno dei loro principali capi d’accusa contro la Chiesa Romana.