SignificatoCapogiro, vertigine; tipo di propaggine che consiste nel piegare a terra un ramo o tralcio per interrarne l’estremità; capostorno, parassitosi animale
Etimologia etimo incerto, forse dalla locuzione latina caput captum, ‘capo preso’.
L’istituzione di gerarchie, nel mondo dei felini, è un fenomeno estremamente interessante, e in particolare il modo in cui il gatto domestico (Felis catus) assurga in casa a posizioni di comando… No. Se parliamo di ‘capogatto’ non stiamo parlando di un gatto capo, anche se questa evocazione è inevitabile, e anzi contribuisce al magnetismo del termine.
Si tratta di una parola di bella tradizione popolare, che oggi si presenta senz’altro ricercata.
Il suo primo significato, più versatile e spendibile, è quello di capogiro, di vertigine. Posso parlare di come il gran caldo, o il pranzo esagerato, mi faccia venire il capogatto, la notizia inattesa mi dà un capogatto tale che mi devo sedere, e lo spettacolo è tanto fantasmagorico che un capogatto è inevitabile.
È meno scontato, meno didascalico, onestamente impegnato a dare smalto alla frase. La sua origine è dibattuta, ma c’è una certa convergenza (non dirimente) sull’espressione latina caput captum, ‘preso nella testa’. C’è chi ci ha letto una formazione analoga a quella del ‘mentecatto’, analogamente ‘preso nella mente’, ma è plausibile che ci sia da interporre il passaggio di un altro significato.
Il capogatto infatti è anche un tipo di propaggine. Quando si vuole riprodurre una pianta, spesso si prende un tralcio, si piega in basso e si interra: lì metterà nuove radici. Se ne può interrare un tratto lasciando libera la punta, oppure si può interrare direttamente la punta: quest’ultima sorta di talea è il capogatto — una pratica che dà una ragione estremamente descrittiva del caput captum: un ‘capo preso’ più letterale non si può immaginare. È plausibile che sia questo capogatto, col suo far finire capofitto a terra il tralcio volvente della vite, ad aver originato il capogatto quale vertigine, capogiro.
Però serve serenità: è un latinismo popolare che si trova attestato alla fine del sedicesimo secolo, il che vuol dire che ha vissuto una vita di una valanga di secoli in usi orali — è normale che in questi casi sia difficile mettere a fuoco una storia precedente. I secoli bui non sono bui perché arretrati, ma perché senza una sufficiente mole di roba scritta li conosciamo a tentoni. Aggiungiamoci che ‘capogatto’ è anche un altro nome del capostorno, parassitosi di animali erbivori, e accettiamo che questo cerchio non lo chiuderemo.
Per quanto i trascorsi siano impenetrabili, però, l’uso di questa parola è facile, cristallino. Inoltre, anche senza sapere che ‘capogatto’ vuol dire ‘capogiro’, il riferimento al capo è sufficiente a far comprendere il fulcro del riferimento anche a chi non la conosca — mentre quel ‘gatto’ misterioso si presta a intuizioni di confusione vaghe e gustose.
Mia nonna, quando ero turbolento, diceva “mi fai venire il capogatto”: mi si proiettava nella mente il profilo di un capitano felino che le pazziava sulla testa — a ben vedere, una rappresentazione concreta piuttosto calzante sul significato astratto.
L’istituzione di gerarchie, nel mondo dei felini, è un fenomeno estremamente interessante, e in particolare il modo in cui il gatto domestico (Felis catus) assurga in casa a posizioni di comando… No. Se parliamo di ‘capogatto’ non stiamo parlando di un gatto capo, anche se questa evocazione è inevitabile, e anzi contribuisce al magnetismo del termine.
Si tratta di una parola di bella tradizione popolare, che oggi si presenta senz’altro ricercata.
Il suo primo significato, più versatile e spendibile, è quello di capogiro, di vertigine. Posso parlare di come il gran caldo, o il pranzo esagerato, mi faccia venire il capogatto, la notizia inattesa mi dà un capogatto tale che mi devo sedere, e lo spettacolo è tanto fantasmagorico che un capogatto è inevitabile.
È meno scontato, meno didascalico, onestamente impegnato a dare smalto alla frase. La sua origine è dibattuta, ma c’è una certa convergenza (non dirimente) sull’espressione latina caput captum, ‘preso nella testa’. C’è chi ci ha letto una formazione analoga a quella del ‘mentecatto’, analogamente ‘preso nella mente’, ma è plausibile che ci sia da interporre il passaggio di un altro significato.
Il capogatto infatti è anche un tipo di propaggine. Quando si vuole riprodurre una pianta, spesso si prende un tralcio, si piega in basso e si interra: lì metterà nuove radici. Se ne può interrare un tratto lasciando libera la punta, oppure si può interrare direttamente la punta: quest’ultima sorta di talea è il capogatto — una pratica che dà una ragione estremamente descrittiva del caput captum: un ‘capo preso’ più letterale non si può immaginare. È plausibile che sia questo capogatto, col suo far finire capofitto a terra il tralcio volvente della vite, ad aver originato il capogatto quale vertigine, capogiro.
Però serve serenità: è un latinismo popolare che si trova attestato alla fine del sedicesimo secolo, il che vuol dire che ha vissuto una vita di una valanga di secoli in usi orali — è normale che in questi casi sia difficile mettere a fuoco una storia precedente. I secoli bui non sono bui perché arretrati, ma perché senza una sufficiente mole di roba scritta li conosciamo a tentoni. Aggiungiamoci che ‘capogatto’ è anche un altro nome del capostorno, parassitosi di animali erbivori, e accettiamo che questo cerchio non lo chiuderemo.
Per quanto i trascorsi siano impenetrabili, però, l’uso di questa parola è facile, cristallino. Inoltre, anche senza sapere che ‘capogatto’ vuol dire ‘capogiro’, il riferimento al capo è sufficiente a far comprendere il fulcro del riferimento anche a chi non la conosca — mentre quel ‘gatto’ misterioso si presta a intuizioni di confusione vaghe e gustose.
Mia nonna, quando ero turbolento, diceva “mi fai venire il capogatto”: mi si proiettava nella mente il profilo di un capitano felino che le pazziava sulla testa — a ben vedere, una rappresentazione concreta piuttosto calzante sul significato astratto.