SignificatoMalvagio, disonesto; che richiede un impegno eccessivo rispetto al vantaggio che se ne trae
Etimologia voce dotta recuperata dal latino ìmprobus, derivato di probus ‘onesto, retto’ col prefisso negativo in-.
‘Probo’, come molte persone ricordano, è un termine ricercato per dire ‘onesto, retto’. L’ìmprobo, contando che montato sul davanti sfoggia un prefisso negativo, appare come il suo contrario, significando ‘disonesto, malvagio’. E potremmo immaginare una corrispondenza specchiata, senza nessuna sbavatura.
Ma allora perché dico che mi tocca il compito improbo di rimettere a posto l’archivio, che mi aspetta la fatica improba di una mattina alle poste, un lavoro improbo di revisione dei conti? La risposta ci catapulta indietro, e tocca corde profonde.
Ebbene, l’improbo è in effetti innanzitutto il disonesto, il malvagio: questo è il primo significato con cui questa parola, nel Trecento, entra in italiano. E però oggi questo significato è praticamente del tutto desueto — non capita di parlare della pena che aspetta gli improbi, semmai preferiamo ‘reprobi’. Ma l’improbo non è solo questo: improbus ha avuto una grande quantità di significati, in latino, e anche qualche uso celebre che ha avuto il suo peso.
Se da un lato si dice improbus ciò che è di qualità scadente, lo sleale, l’indecente e l’avido, dall’altro è improbus anche l’estremo, lo smodato, anche nel senso di feroce, di ardito e di ostinato. Il probus, che liquidiamo come buono e perbene, è un antico termine agricolo che descrive ciò che ‘cresce bene’ — quasi opposto al superbus, che ‘cresce sopra’. L’improbus è quindi lo squilibrio del buono, verso lo scarso e l’eccessivo, che pure però sa mantenere dei tratti schiettamente positivi in frangenti difficili, che richiedono risposte un po’ meno rette.
Dando un occhio a Virgilio, Enea che fa avanzare i cavalieri (siamo nell’XI libro dell’Eneide, in guerra aperta) è detto improbus, e naturalmente ha un significato di audacia; mentre nel I libro delle Georgiche parla di labor improbus (una fatica improba, proprio come diciamo noi!), ma ne parla in modo inatteso. Labor omnia vincit improbus, ‘il lavoro ostinato vince tutto’. E non è proprio il sentimento gagliardo che abbiamo in mente davanti alla nostra fatica improba.
Il nostro comune improbo richiede un impegno, uno sforzo che è superiore al vantaggio che offre. Non è rimasto una semplice durezza da attribuire a un lavoro: sembra che il concetto di disonestà, di slealtà, di iniquità alla fine ci pesi dentro. Non sarà un lavoro letteralmente disonesto, ma le proporzioni fra impegno e risultato lo rendono ingrato, squilibrato tanto a compenso quanto a soddisfazione. Sarebbe bello vederci comunque un po’ di quella ostinazione del labor improbus virgiliano, o almeno qualche tratto di squilibrio positivo, ma ormai questa parola è nostra, e di eccesso e sproporzione ingrata ha fatto il suo nuovo carattere.
‘Probo’, come molte persone ricordano, è un termine ricercato per dire ‘onesto, retto’. L’ìmprobo, contando che montato sul davanti sfoggia un prefisso negativo, appare come il suo contrario, significando ‘disonesto, malvagio’. E potremmo immaginare una corrispondenza specchiata, senza nessuna sbavatura.
Ma allora perché dico che mi tocca il compito improbo di rimettere a posto l’archivio, che mi aspetta la fatica improba di una mattina alle poste, un lavoro improbo di revisione dei conti? La risposta ci catapulta indietro, e tocca corde profonde.
Ebbene, l’improbo è in effetti innanzitutto il disonesto, il malvagio: questo è il primo significato con cui questa parola, nel Trecento, entra in italiano. E però oggi questo significato è praticamente del tutto desueto — non capita di parlare della pena che aspetta gli improbi, semmai preferiamo ‘reprobi’. Ma l’improbo non è solo questo: improbus ha avuto una grande quantità di significati, in latino, e anche qualche uso celebre che ha avuto il suo peso.
Se da un lato si dice improbus ciò che è di qualità scadente, lo sleale, l’indecente e l’avido, dall’altro è improbus anche l’estremo, lo smodato, anche nel senso di feroce, di ardito e di ostinato. Il probus, che liquidiamo come buono e perbene, è un antico termine agricolo che descrive ciò che ‘cresce bene’ — quasi opposto al superbus, che ‘cresce sopra’. L’improbus è quindi lo squilibrio del buono, verso lo scarso e l’eccessivo, che pure però sa mantenere dei tratti schiettamente positivi in frangenti difficili, che richiedono risposte un po’ meno rette.
Dando un occhio a Virgilio, Enea che fa avanzare i cavalieri (siamo nell’XI libro dell’Eneide, in guerra aperta) è detto improbus, e naturalmente ha un significato di audacia; mentre nel I libro delle Georgiche parla di labor improbus (una fatica improba, proprio come diciamo noi!), ma ne parla in modo inatteso. Labor omnia vincit improbus, ‘il lavoro ostinato vince tutto’. E non è proprio il sentimento gagliardo che abbiamo in mente davanti alla nostra fatica improba.
Il nostro comune improbo richiede un impegno, uno sforzo che è superiore al vantaggio che offre. Non è rimasto una semplice durezza da attribuire a un lavoro: sembra che il concetto di disonestà, di slealtà, di iniquità alla fine ci pesi dentro. Non sarà un lavoro letteralmente disonesto, ma le proporzioni fra impegno e risultato lo rendono ingrato, squilibrato tanto a compenso quanto a soddisfazione. Sarebbe bello vederci comunque un po’ di quella ostinazione del labor improbus virgiliano, o almeno qualche tratto di squilibrio positivo, ma ormai questa parola è nostra, e di eccesso e sproporzione ingrata ha fatto il suo nuovo carattere.