SignificatoBere leccando rumorosamente l’acqua , al modo degli animali, specie dei cani; bere rumorosamente, ingurgitare avidamente
Etimologia dalla voce del latino parlato ricostruita come lappare, di origine onomatopeica.
È una parola dalla sorte curiosa.
Stiamo parlando di un verbo precisissimo, che ci parla del modo in cui gli animali, specie i cani, bevono, usando rumorosamente la lingua. È evidentemente un verbo onomatopeico, ma la diffusione della sua suggestione fra le lingue romanze (il francese laper, il catalano llepar) richiede un precedente latino, ipotizzato proprio come lappare; e però questo verbo in italiano non è attestato prima della fine del Cinquecento — quindi ha vissuto a lungo una vita molto umile, sotto radar. Ma già nell’Ottocento dizionari celebri come quello di Tommaseo lo davano per morto, insieme a consimili come lappeggiare o lapteggiare.
Si ricostruisce che il lappare latino debba essere imparentato con il lambire, un altro leccare imperniato sull’animale, che oggi in italiano vive una vita di metafora in registri elevati, ma che scaturisce parimenti da una famiglia onomatopeica indoeuropea, estesa su molte lingue: la ritroviamo dal greco lépto all’inglese to lap col medesimo significato.
Che piacere vedere come una pianta così antica nel Novecento sia stata recuperata, e che abbia trovato la sua epoca d’oro dopo il Duemila.
Questo successo è probabilmente frutto della nuova vicinanza degli animali. Ci accompagnano da sempre, ma l’animale domestico ha acquisito un nuovo ruolo nelle famiglie, che ha reso più importante — pensa che bello — rendere in maniera linguisticamente più efficace le loro abitudini, i loro comportamenti.
Così possiamo parlare del cane che lappa da ogni ristagno d’acqua che non sia la sua ciotola pulita e fresca, della mucca che lappa placida col muso nella vasca, del gatto che con la scusa di lappare entra nella stanza per dare un’occhiata agli ospiti.
Certo è un modo di leccare e bere non solo molto ben rappresentato da questo verbo, ma anche molto evocativo: c’è sempre un che di inurbano, nel lappare, di distintivo dell’animale rispetto alle umane cortesie. E quindi si attaglia meravigliosamente a tutti quei casi in cui sono esseri umani a bere e mangiare trangugiando, ingurgitando con avidità e rumore. Lappo il brodo dei tortellini a stento interponendo il cucchiaio, lappo il ghiacciolo che mi sta gocciolando lungo il polso, mentre quando pranzo di fretta scuffio e lappo in maniera bestiale.
Sì, in un passato ormai arcaico della lingua il lappare è stato usato anche come usiamo il lambire — ad esempio parlando delle onde che lappano agli scogli. Ma è un uso rimasto fuori dalla rinascita del lappare: in questa fase storica pare che voglia restare ben aderente all’animale e al rumoreggiare della sua lingua.
È una parola dalla sorte curiosa.
Stiamo parlando di un verbo precisissimo, che ci parla del modo in cui gli animali, specie i cani, bevono, usando rumorosamente la lingua. È evidentemente un verbo onomatopeico, ma la diffusione della sua suggestione fra le lingue romanze (il francese laper, il catalano llepar) richiede un precedente latino, ipotizzato proprio come lappare; e però questo verbo in italiano non è attestato prima della fine del Cinquecento — quindi ha vissuto a lungo una vita molto umile, sotto radar. Ma già nell’Ottocento dizionari celebri come quello di Tommaseo lo davano per morto, insieme a consimili come lappeggiare o lapteggiare.
Si ricostruisce che il lappare latino debba essere imparentato con il lambire, un altro leccare imperniato sull’animale, che oggi in italiano vive una vita di metafora in registri elevati, ma che scaturisce parimenti da una famiglia onomatopeica indoeuropea, estesa su molte lingue: la ritroviamo dal greco lépto all’inglese to lap col medesimo significato.
Che piacere vedere come una pianta così antica nel Novecento sia stata recuperata, e che abbia trovato la sua epoca d’oro dopo il Duemila.
Questo successo è probabilmente frutto della nuova vicinanza degli animali. Ci accompagnano da sempre, ma l’animale domestico ha acquisito un nuovo ruolo nelle famiglie, che ha reso più importante — pensa che bello — rendere in maniera linguisticamente più efficace le loro abitudini, i loro comportamenti.
Così possiamo parlare del cane che lappa da ogni ristagno d’acqua che non sia la sua ciotola pulita e fresca, della mucca che lappa placida col muso nella vasca, del gatto che con la scusa di lappare entra nella stanza per dare un’occhiata agli ospiti.
Certo è un modo di leccare e bere non solo molto ben rappresentato da questo verbo, ma anche molto evocativo: c’è sempre un che di inurbano, nel lappare, di distintivo dell’animale rispetto alle umane cortesie. E quindi si attaglia meravigliosamente a tutti quei casi in cui sono esseri umani a bere e mangiare trangugiando, ingurgitando con avidità e rumore. Lappo il brodo dei tortellini a stento interponendo il cucchiaio, lappo il ghiacciolo che mi sta gocciolando lungo il polso, mentre quando pranzo di fretta scuffio e lappo in maniera bestiale.
Sì, in un passato ormai arcaico della lingua il lappare è stato usato anche come usiamo il lambire — ad esempio parlando delle onde che lappano agli scogli. Ma è un uso rimasto fuori dalla rinascita del lappare: in questa fase storica pare che voglia restare ben aderente all’animale e al rumoreggiare della sua lingua.