Etimologia propriamente participio passato di marezzare, derivato di mare nel senso di ‘dipingere come onde del mare’, forse attraverso un significato specifico della variante mareggiare.
Questa parola è pratica, diretta, ma ha una precisione poetica rara e icastica, che pesa sull’intera frase in cui è chiamata. Il marezzato ci descrive qualcosa di striato — ma non in un piano disegno di linee parallele. Le sue sinuosità incrociate non hanno geometrie simmetriche e ordinate: hanno la trama inafferrabile, mutevole delle onde del mare.
La proiezione della luce che attraversa l’acqua mossa e arriva al fondo, o ai nostri occhi, crea reticoli più chiari e più scuri, zone mobili di maggiore e minore ombra, creste, avvallamenti che si riconfigurano continuamente in una complessità tridimensionale. Sono queste le striature del marezzato, colte in un’impossibile fissità da disegno. E la lingua — cioè il nostro popolo — ha trovato una quantità impressionante e variegata di corrispondenze con questa immagine, attestata dal Rinascimento.
Sono marezzati i riflessi di un tessuto lucido, o tinto ad arte perché renda una trama cromatica mutevole; sono detti marezzati i manti inuguali di certi animali, ed è marezzato il muscolo finemente infiltrato di strie di grasso. Si possono dire marezzate certe pietre, e in particolare, naturalmente, certi marmi: proprio il marmo è il contraltare del marezzato, l’altro referente che viene usato per antonomasia per indicare questo tipo di venato, di striato — ad esempio, la carta che è stata decorata appoggiandola sulla superficie di un bagno su cui galleggiano colori sapientemente stesi è detta marmorizzata o marezzata.
Ma possiamo anche parlare del cielo marezzato di nubi alte, di gigli marezzati, della lama marezzata di un coltello. E magari, fuor di luce e colori, di una bella serata marezzata di malinconia, o di un’amarezza marezzata d’ironia.
Di un’immagine semplice e potente si riconoscono eco ovunque.
Questa parola è pratica, diretta, ma ha una precisione poetica rara e icastica, che pesa sull’intera frase in cui è chiamata. Il marezzato ci descrive qualcosa di striato — ma non in un piano disegno di linee parallele. Le sue sinuosità incrociate non hanno geometrie simmetriche e ordinate: hanno la trama inafferrabile, mutevole delle onde del mare.
La proiezione della luce che attraversa l’acqua mossa e arriva al fondo, o ai nostri occhi, crea reticoli più chiari e più scuri, zone mobili di maggiore e minore ombra, creste, avvallamenti che si riconfigurano continuamente in una complessità tridimensionale. Sono queste le striature del marezzato, colte in un’impossibile fissità da disegno. E la lingua — cioè il nostro popolo — ha trovato una quantità impressionante e variegata di corrispondenze con questa immagine, attestata dal Rinascimento.
Sono marezzati i riflessi di un tessuto lucido, o tinto ad arte perché renda una trama cromatica mutevole; sono detti marezzati i manti inuguali di certi animali, ed è marezzato il muscolo finemente infiltrato di strie di grasso. Si possono dire marezzate certe pietre, e in particolare, naturalmente, certi marmi: proprio il marmo è il contraltare del marezzato, l’altro referente che viene usato per antonomasia per indicare questo tipo di venato, di striato — ad esempio, la carta che è stata decorata appoggiandola sulla superficie di un bagno su cui galleggiano colori sapientemente stesi è detta marmorizzata o marezzata.
Ma possiamo anche parlare del cielo marezzato di nubi alte, di gigli marezzati, della lama marezzata di un coltello. E magari, fuor di luce e colori, di una bella serata marezzata di malinconia, o di un’amarezza marezzata d’ironia.
Di un’immagine semplice e potente si riconoscono eco ovunque.