Malinconia
ma-lin-co-nì-a
Significato Secondo la medicina ippocratica, bile nera che determina un temperamento triste; tristezza vaga e delicata, anche esistenziale
Etimologia voce dotta recuperata dal latino tardo melanchòlia ‘umor nero’, dal greco melankholía ‘bile nera’, composto di mélas ‘nero’ e khólos ‘bile’.
- «È un finale di grande malinconia.»
Parola pubblicata il 25 Settembre 2024
Averne, di parole così. Non solo di pensiero raffinato, sottile e però accessibile, ma che in particolare leggano in maniera complessa e fertile un sentimento che lunga cultura ci insegna come negativo e piuttosto piatto.
Il campo è quello della tristezza — un’emozione dal nome misterioso: il latino tristis ha già il vasto significato di ‘triste’, senza che sia stato possibile ricostruire la sua storia precedente. Ma quella della malinconia non è una tristezza qualunque, anzi è una tristezza paradossale.
Victor Hugo, ne Les Travailleurs de la mer, la mise così: «La mélancolie, c'est le bonheur d'être triste» (‘La malinconia, è la felicità d’esser tristi’). In effetti, è una tristezza vaga, intima e… contenta di sé. Nella sua delicatezza non è meno intensa della tristezza, ma ecco: è un’emozione comoda, da starci dentro.
Caso curiosissimo, si direbbe; eppure in realtà è solo particolarmente chiaro, oltre che eccellente. Abbiamo anche altri sentimenti negativi che hanno le loro declinazioni piacevoli, che ci danno contentezza. Abbiamo rabbie comode in cui indulgiamo con piacere — pensiamo alla sete di giustizia. Che arsura convinta di sé! E quindi contenta di sé. Pensiamo al numero di esperienze amatissime (e anche alla fetta di mercato) in cui il divertimento ricercato è la paura. Che delusione i film horror che non ti danno la coccola elettrica dell’adrenalina! Che meraviglia dondolare sulle cime degli alberi nell’ebbrezza della vertigine! Senza contare i sottili piaceri della chiusura e della diffidenza. Paure in cui ci accomodiamo.
Beninteso, la malinconia non nasce così. È uno dei tanti termini che ci arriva dalla medicina ippocratica, che per quanto fallace è stato il paradigma medico per una caterva di secoli.
Alla lettera la malinconia (in greco melankholía) è la bile nera, uno dei quattro umori fondamentali di questa teoria (insieme a bile gialla, flemma e sangue). Dal loro equilibrio dipendono tutti i caratteri e gli accidenti di salute.
Quando questo umor nero prevale sugli altri, determina un temperamento triste — il temperamento malinconico o atrabiliare (stessa zuppa). Triste, introspettivo, contemplativo, di variegata inquietudine. Ma curiosamente, più dei colleghi ippocratici parigrado quale il flemmatico, il sanguigno, il collerico, ha saputo affrancarsi dalle maglie tradizionali delle complessioni umorali d’Ippocrate, verso quella che sembra una complessità ulteriore.
Lentamente, a partire dai tecnicismi medievali in cui è evidentemente un termine della tradizione medica, la malinconia s’innverva di sfumature e impressioni che finiscono per darle una consistenza differente e proteiforme. Certo, la permanenza di una considerazione scura si vede anche dallo stesso nome: in latino tardo questo sentimento era melanchòlia, e in italiano è stato adattato in una quantità di varianti — melanconìa, maninconia, melancolìa e via dicendo. Ma ‘malinconia’ ha prevalso, nella sua arbitrarietà, anche in virtù dell’attrazione di ‘male’.
Ha avuto un carattere di affezione medica, diciamo pure di malattia, ancora in un paradigma più moderno, sei-settecentesco (un po’ al modo della nostalgia), senza contare il ruolo che ha avuto in fasi posteriori, in psicologia e psichiatria. Ma è col romanticismo ottocentesco che riesce a sviluppare una complessità inusitata, e a diventare un grande nervo della letteratura.
Nell’uso comune che si è affermato non è una tristezza desolata, che avvilisce e addolora. Non è una tristezza tetra, opprimente, insoddisfatta. Può germogliare da vaghe inquietudini e delusioni. Può essere una tristezza consapevole, ricca di comprensione, di empatia, di contemplazione. Può essere una tristezza dolce, a cui ci si abbandona, perfino con una dimensione esistenziale.
Curioso che questo ci faccia tornare ai caratteri più sottili della complessione malinconica d’Ippocrate: sotto al banale cupo aveva il caratteri del saturnino e del riflessivo — e Aristotele la diceva ricorrente in personalità straordinarie.
Possiamo leggere pagine malinconiche di divulgazione storica, su città gloriose finite là dove sono finite le nevi di un tempo; nella cerimonia festosa una riflessione malinconica dà profondità e prospettiva; e il pomeriggio malinconico ci dà uno spazio di respiro e pensiero.
Sorprendente che una parola riesca a rappresentare una vastità interiore così precisa e priva di contorni insieme.