Chiamare

Scorci letterari

chia-mà-re (io chiàmo)

Significato Rivolgersi a qualcuno per attirare la sua attenzione, per farlo avvicinare, intervenire, parlargli e via dicendo; dare un nome, definire

Etimologia dal latino clamare ‘gridare, proclamare’.

In questa parola si intreccia una miriade di usi sottili e quotidiani, che però possiamo discernere in due grosse specie: il chiamare-attirare e il chiamare-definire.

Ti vedo dall’altra parte dell’atrio e ti chiamo; ti chiamo quando arrivo; chiamo l’ascensore e il taxi, chiamo aiuto; vengo chiamato a testimoniare; chiamo a raccolta. Il punto di colore pare simile, eppure è una carrellata di inviti, contatti, richieste, convocazioni, invocazioni, adunanze. C’è una quantità impressionante di azioni, in questo ‘chiamare’. Ma aggiungiamoci il ‘come ti chiami?’; mettiamoci che certi sentimenti non sappiamo come chiamarli, o come si chiamano le ossa del braccio. Qui il chiamare ci si presenta in una veste diversa. Qui definisce, dà un nome. E non c’è punto più fascinoso del tronco della sua biforcazione - seguimi ancora qualche passo.

Il ‘chiamare’ etimologicamente non ha a che vedere con l’attirare o con il nominare. Si tratta di un gridare, di un rumoreggiare (il clamore viene da qui), che è anche un proclamare. Ciò che sappiamo del chiamare originario è che per essere compiuto chiede una gran voce. Non è un attirare a mezza bocca, non è un definire in un bisbiglio. È un riconoscere sicuro di sé, che vocia di diaframma. Ti riconosco dall’altra parte dell’atrio, riconosco la tua premura e ti telefono quando arrivo, riconosco il servizio e l’aiuto, sono riconosciuto come testimone, riconosco il gruppo, e ci aggiungiamo il ‘come ti riconosci?’, i sentimenti che non si riconoscono, le ossa del braccio che invece sì. Invito o definizione che sia, è in una sfumatura del genere che troviamo il tronco unico del chiamare.

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G. Mameli, Canto degli italiani, vv. 9-11.

Stringiamci a coorte,

siam pronti alla morte,

siam pronti alla morte:

l’Italia chiamò.

Abbiamo aperto questo ciclo con la nascita dell’italiano, lo chiudiamo con la nascita dell’Italia. Non che l’inno sia un capolavoro letterario; ma il suo significato va al di là delle parole che lo compongono.

L’ho capito, strano a dirsi, in Australia. Ero alla festa del 2 giugno organizzata dal Consolato, e l’inno mi ha insolitamente colpita: vibrava di un’emozione che trascendeva la retorica un po’ obsoleta del testo. E vedevo gli uomini davanti a me – panciuti signori di mezz’età, magari residenti in Australia da decenni – che drizzavano la schiena e allargavano le spalle, come fieri soldati.

In quel momento l’Italia chiamava, per davvero. In effetti pare che la sua voce si senta più facilmente all’estero: passeggi per una città straniera e ti vengono in mente altre strade, altre case, che in quel momento ti sembrano le più belle del mondo. Oppure qualcuno ti parla in italiano, e ti senti come se avessi ritrovato un amico di lunga data.

In patria invece questa voce si fa sentire in rare occasioni, come i famosi mondiali del 2006: quando perfetti sconosciuti si abbracciavano per la strada, esultando come se avessero appena vinto la guerra.

E tuttavia non penso ci sia bisogno di tanto per sentire l’Italia chiamare. Personalmente mi basta alzare gli occhi sul Duomo, o fermarmi ad assaporare una bella parola. La voce dell’Italia è sottile: è nella bellezza che respiri tutti i giorni, e ti entra nel sangue senza che tu te ne accorga.

È anche la voce delle persone che nei secoli hanno abitato questa terra e le hanno dato forma. È una voce piena di dolore e rabbia, ma anche di amore, di gusto per la vita; e trasmette conoscenze secolari ma ancora vive, come la sacra ricetta della pastasciutta (ché all’estero, si sa, non la sanno fare).

Certo, non è una voce sempre gradevole. Però l’Italia ha ancora tanto da dire: e sarebbe un peccato non sentirla solo perché siamo troppo impegnati a lamentarci di lei.

Parola pubblicata il 13 Agosto 2018

Scorci letterari - con Lucia Masetti

Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.