SignificatoSegmento organico indivisibile di suoni, che abbia significato anche da solo, con cui l’uomo comunica
Etimologia dal latino parabola ‘similitudine’, parabolé in greco, che è dal verbo parabàllo ‘confronto, metto a lato’.
La parola, astrazione simbolica, nasce accanto all’oggetto o all’azione che rappresenta. Nella realtà esterna, di per sé, è un suono, al massimo è un carattere tracciato su un supporto: è un significante che porta un significato. Si tratta di un’unità universale, presente in ogni lingua umana formalizzata, vero e proprio atomo comunicativo - e in quanto tale spesso, nella nostra lingua, citata come prototipo di questo atomo, nella sua piccolezza e nella sua profondità: mettere una parola buona, dare la mia parola, dirò solo un paio di parole.
Ma non è solo questo. La parola, come ogni allegoria e metafora, non è mera descrizione, ma è un’entità creativa - scegliendola si sceglie e genera una realtà.
Se io dico che sono incazzato, nella realtà esterna genererò un campo, nel quale resto anche io invischiato, connotato da furore irrefrenabile, becero e nero; se mi dico stizzito o adirato, ne genererò uno connotato da disappunto infastidito, o da un’assertività elevata e aggressiva. Perciò la parola e la magia sono da sempre così legate. Quest’azione di scegliere la parola non descrive solo il sentimento, l’energia, ma gli dà forma - è l’azione di Canova che trasforma il calcare del marmo bianco in Eros e Psiche.
Un’azione così potente ha un impatto formidabile sulla vita umana: migliore il nostro uso delle parole, migliore il nostro potere sulla nostra realtà. E la faccia negativa della medaglia apre conseguenze funeste.
Robert Levy, antropologo statunitense, negli anni ‘50 condusse degli studi sullo strano alto tasso di suicidi che affliggeva Thaiti. Così scoprì che nella cultura e nella lingua thaitiana non esisteva la concezione del dolore, fuorché di quello fisico. Davanti al dolore interiore (che ovviamente provavano) i thaitiani non sapevano come reagire, era qualcosa di anormale, non avevano parole per esprimerlo, e reagivano col suicidio. E simili discorsi si potrebbero attualmente fare sulla relazione fra ignoranza e tendenza alla violenza - reazione animale che spesso risulta dall’esclusione di introspezione consapevole e munita di parole per decifrarsi ed esprimersi.
La parola incide poderosamente sulla cognizione della vita; lo studio delle parole, l’attenzione quotidiana al loro uso e alla loro conoscenza viva è ciò che ci fornisce le idee di cui abbiamo necessità per formarci, per svilupparci appieno come umani - onere e privilegio solo nostro, ma forse indeclinabile. Noblesse oblige.
La parola, astrazione simbolica, nasce accanto all’oggetto o all’azione che rappresenta. Nella realtà esterna, di per sé, è un suono, al massimo è un carattere tracciato su un supporto: è un significante che porta un significato. Si tratta di un’unità universale, presente in ogni lingua umana formalizzata, vero e proprio atomo comunicativo - e in quanto tale spesso, nella nostra lingua, citata come prototipo di questo atomo, nella sua piccolezza e nella sua profondità: mettere una parola buona, dare la mia parola, dirò solo un paio di parole.
Ma non è solo questo. La parola, come ogni allegoria e metafora, non è mera descrizione, ma è un’entità creativa - scegliendola si sceglie e genera una realtà.
Se io dico che sono incazzato, nella realtà esterna genererò un campo, nel quale resto anche io invischiato, connotato da furore irrefrenabile, becero e nero; se mi dico stizzito o adirato, ne genererò uno connotato da disappunto infastidito, o da un’assertività elevata e aggressiva. Perciò la parola e la magia sono da sempre così legate. Quest’azione di scegliere la parola non descrive solo il sentimento, l’energia, ma gli dà forma - è l’azione di Canova che trasforma il calcare del marmo bianco in Eros e Psiche.
Un’azione così potente ha un impatto formidabile sulla vita umana: migliore il nostro uso delle parole, migliore il nostro potere sulla nostra realtà. E la faccia negativa della medaglia apre conseguenze funeste.
Robert Levy, antropologo statunitense, negli anni ‘50 condusse degli studi sullo strano alto tasso di suicidi che affliggeva Thaiti. Così scoprì che nella cultura e nella lingua thaitiana non esisteva la concezione del dolore, fuorché di quello fisico. Davanti al dolore interiore (che ovviamente provavano) i thaitiani non sapevano come reagire, era qualcosa di anormale, non avevano parole per esprimerlo, e reagivano col suicidio. E simili discorsi si potrebbero attualmente fare sulla relazione fra ignoranza e tendenza alla violenza - reazione animale che spesso risulta dall’esclusione di introspezione consapevole e munita di parole per decifrarsi ed esprimersi.
La parola incide poderosamente sulla cognizione della vita; lo studio delle parole, l’attenzione quotidiana al loro uso e alla loro conoscenza viva è ciò che ci fornisce le idee di cui abbiamo necessità per formarci, per svilupparci appieno come umani - onere e privilegio solo nostro, ma forse indeclinabile. Noblesse oblige.