SignificatoCondizione intermedia fra luce e ombra; in ottica e astronomia, regione di passaggio graduale fra ombra e luce
Etimologia attraverso il francese pénombre, dal latino scientifico pénumbra, composto di paene ‘quasi’ e umbra ‘ombra’.
La penombra ci fa venire in mente la frescura tranquilla di un sottobosco, la stanza schiarita solo dalla luce che filtra fra le stecche delle persiane chiuse, il parco al tramonto in cui gli alberi e i cespugli s’intravedono ancora. È una parola che si usa tanto e volentieri per le sue capacità evocative: la penombra è ambigua e non ci lascia mai indifferenti, sa essere accogliente e protettiva, così come rischiosa e disorientante. Come un crepuscolo, si ritaglia un interregno in cui molto di particolare può accadere. Pensiamo a che differenza c’è fra un bacio al sole, un bacio al buio, un bacio nella penombra.
Ciò che sorprende è che pare si sappia con precisione chi ha coniato questa parola: Giovanni Keplero. Proprio quel Keplero, il celebre astronomo. Per la verità ha coniato il termine penumbra, nel latino scientifico, e pare sia arrivato in italiano attraverso un passaggio in francese, ma la sostanza non cambia. Nel suo Ad Vitellionem Paralipomena, Quibus Astronomiae Pars Optica Traditur, opera particolarmente importante di ottica astronomica datata 1604, dà conto di un certo fenomeno che riguarda le eclissi: l’ombra proiettata da un corpo celeste in un’eclissi non è omogenea, ma si divide in un cono d’ombra vera e propria che via via si restringe (se ci siamo dentro si può apprezzare un’eclissi totale) e in un cono di penombra che invece si allarga indefinitamente (da cui invece si può godere solo di un’eclissi parziale). Questo accade perché la fonte luminosa, il sole, non è puntiforme: se fosse un punto inesteso nello spazio proietterebbe ombre nette, invece, per quanto distante da terra e luna, è decisamente abbondante. Ogni suo punto illumina in tutte le direzioni, quindi per restare al buio completo ci dobbiamo trovare proprio nel cono d’ombra che si stringe dietro a ciascun corpo celeste che gli gira intorno — e il cono di ombra completa è centrato in un ampio cono rovesciato di penombra, di passaggio fra ombra e luce, risultato di una copertura parziale del sole.
Così quelle immagini di risate gradite negli angoli nascosti dei giardini sul far della notte, quelle dei predatori invisibili nel riparo di uno sperone di roccia, quelle delle verande ventilate dove riposiamo gli occhi abbacinati mangiando il gelato, ebbene quelle penombre, che pensiamo come penombre, scaturiscono dall’urgenza precisa dell’alto scienziato, che spiega gli errori antichi sulle osservazioni delle eclissi con una parola nuova, così mirabilmente descrittiva della realtà che ora non può farne a meno nemmeno chi non ha idea di come funziona un’eclissi, di chi Keplero era.
La penombra ci fa venire in mente la frescura tranquilla di un sottobosco, la stanza schiarita solo dalla luce che filtra fra le stecche delle persiane chiuse, il parco al tramonto in cui gli alberi e i cespugli s’intravedono ancora. È una parola che si usa tanto e volentieri per le sue capacità evocative: la penombra è ambigua e non ci lascia mai indifferenti, sa essere accogliente e protettiva, così come rischiosa e disorientante. Come un crepuscolo, si ritaglia un interregno in cui molto di particolare può accadere. Pensiamo a che differenza c’è fra un bacio al sole, un bacio al buio, un bacio nella penombra.
Ciò che sorprende è che pare si sappia con precisione chi ha coniato questa parola: Giovanni Keplero. Proprio quel Keplero, il celebre astronomo. Per la verità ha coniato il termine penumbra, nel latino scientifico, e pare sia arrivato in italiano attraverso un passaggio in francese, ma la sostanza non cambia. Nel suo Ad Vitellionem Paralipomena, Quibus Astronomiae Pars Optica Traditur, opera particolarmente importante di ottica astronomica datata 1604, dà conto di un certo fenomeno che riguarda le eclissi: l’ombra proiettata da un corpo celeste in un’eclissi non è omogenea, ma si divide in un cono d’ombra vera e propria che via via si restringe (se ci siamo dentro si può apprezzare un’eclissi totale) e in un cono di penombra che invece si allarga indefinitamente (da cui invece si può godere solo di un’eclissi parziale). Questo accade perché la fonte luminosa, il sole, non è puntiforme: se fosse un punto inesteso nello spazio proietterebbe ombre nette, invece, per quanto distante da terra e luna, è decisamente abbondante. Ogni suo punto illumina in tutte le direzioni, quindi per restare al buio completo ci dobbiamo trovare proprio nel cono d’ombra che si stringe dietro a ciascun corpo celeste che gli gira intorno — e il cono di ombra completa è centrato in un ampio cono rovesciato di penombra, di passaggio fra ombra e luce, risultato di una copertura parziale del sole.
Così quelle immagini di risate gradite negli angoli nascosti dei giardini sul far della notte, quelle dei predatori invisibili nel riparo di uno sperone di roccia, quelle delle verande ventilate dove riposiamo gli occhi abbacinati mangiando il gelato, ebbene quelle penombre, che pensiamo come penombre, scaturiscono dall’urgenza precisa dell’alto scienziato, che spiega gli errori antichi sulle osservazioni delle eclissi con una parola nuova, così mirabilmente descrittiva della realtà che ora non può farne a meno nemmeno chi non ha idea di come funziona un’eclissi, di chi Keplero era.