Plastico

plà-sti-co

Significato Che si plasma facilmente; che modella; scultoreo, foggiato e composto in maniera armoniosa o con gusto artistico; modello

Etimologia voce dotta recuperata dal latino tardo plasticus, dal greco plastikós, derivato di plássein ‘modellare, plasmare’.

Il problema è che la plastica, odiosamata galassia di materiali, nella statistica dei nostri discorsi si è mangiata praticamente tutto il plastico. Tanto che diventa difficile riuscire a vedere sotto a questo aggettivo il significato etimologico, la funzione che ci permette di studiarne l’evoluzione. Se ci aggiungiamo che anche nelle espressioni rimanenti fuori dalla plastica ci sono forti ed enigmatiche cristallizzazioni, il lavoro sembra farsi arduo — ma per fortuna no.

Partiamo da una considerazione bella e rilassante: stiamo ragionando di qualcosa di artistico, di estetico. Il greco plastikós ci qualifica ciò ‘che riguarda la scultura’ — a partire da un’arte (plastiké tékhne) che è un modellare (plásso), specie argilla o cera, un plasmare, per usare una parola della stessa pianta etimologica. Curiosamente questo plásso aveva anche il significato figurato negativo di ‘plasmare falsità, menzogne’: è curioso perché il verbo latino fingere nasce proprio come un plasmare e finisce allo stesso modo, come sappiamo.

In effetti il plastique francese, recuperato nel Cinquecento dal latino plasticus (a sua volta dal greco che dicevamo), emerge vertendo sulle sculture che procedono per aggiunta di materia (no come accade in quelle in marmo, che come Michelangelo c’insegnava sono già nel blocco di pietra e vanno liberate dal soverchio). Certi dizionari specificano che questa prima accezione non è solo tecnica, ma qualifica il tentativo ampio di dare una rappresentazione estetica di un corpo.
Riprende forma un concetto ancipite: da un lato un modellabile, dall’altro uno scultoreo.

Quando parliamo di una posa plastica, ecco il riferimento: si tratta di una posa scultorea, come quella in cui mostro il bicipite, o quella in cui mi spertico con un piede su una sedia per raggiungere il telefono sul tavolo per non calpestare il pavimento bagnato, o quella dello zio che si addormenta a fine pranzo con la bocca spalancata. Anche il plastico della stazione, o del bacino idrografico, non si chiama così perché è fatto di plastica, ma perché è un modello. Un centrotavola plastico che spicca sul desco della festa ha una composizione ricercata, di gusto non meno che artistico. E la stessa chirurgia plastica modella, scolpisce il corpo, mentre una poesia plastica, o perfino una parola plastica spiccano per la curata espressività. Una serie di usi molto eleganti.

D’altro canto nemmeno un materiale plastico è necessariamente di plastica: ha una consistenza morbida adatta a farsi plasmare, e sarà magari un materiale come pongo, creta e via dicendo, docile sotto le mani che lo foggiano. In questo senso il plastico è una qualità che si oppone classicamente all’elastico. Una pasta elastica come quella della pizza tende sempre a tornare alla forma che aveva, la maledetta, non si fa stendere facilmente. Invece un impasto plastico di argilla resta della forma che gli dai. Una deformazione elastica, come quella dell’arco incordato e teso, scompare allo svanire della sollecitazione, mentre una deformazione plastica, come quella della padella di rame che mi è caduta dalle mani, mannaggia, è irreversibile — almeno di non portarla da uno stagnino con le mani d’oro. Per estensione, una mente plastica si adatta facilmente alla nuova disciplina, così come una volontà e un’immaginazione plastiche si fanno modellare senza sforzo.

La plastica di cui parliamo sempre è solo un esito di questo percorso. Peraltro pare che il primo a usare il termine plastic per indicare questo genere di materiali — modellati in stampi e che conservano la forma assunta — sia stato a inizio Novecento Leo Baekeland, inventore della bachelite.

Parola pubblicata il 01 Agosto 2024