Etimologia voce dotta recuperata dal latino procrastinare ‘rimandare al giorno dopo’, derivato di crastinus ‘del giorno dopo’, da cras ‘domani, con prefisso pro- ‘avanti’.
È una parola che vive nella nostra lingua da oltre sette secoli, ma è nella nostra società produttivista che ha preso il bel profilo di un demonio — a cui si addice un nome di ascendenza latina. Ma iniziamo dal principio, che è un principio di oblio.
Certe parole, lentamente, cessano di avere un domani — e può valere anche per le parole che significano ‘domani’.
Il latino aveva il cras, parola di origine misteriosa e però in uso universale, per dire ‘domani’ — e oggi lo troviamo solo in alcune continuazioni sarde (cras) e meridionali (crai). Infatti durante il medioevo ha prevalso ineluttabilmente la praticità del de mane, ‘al mattino’, da cui il nostro ‘domani’ stesso. Ma i recuperi dotti scavalcano le tendenze e le desuetudini secolari.
Il latino aveva il verbo procrastinare, un derivato di crastinus ‘del giorno seguente’ (ovviamente da cras ‘domani’), circostanziato dal prefisso pro-, che è un avanti nel tempo. Il risultato è un pianissimo ‘rimandare al giorno dopo’. E questo verbo viene recuperato, specie come ‘rimandare a un altro momento’. Ma qui c’è la sua specificità.
Il rimandare non ha orizzonte. Non ne implica subito uno nemmeno il differire, nemmeno il rinviare. Se rimando un impegno, non contemplo dentro a quel solo ‘rimandare’ un lasso di tempo in cui verrà recuperato. Se lo differisco, idem.
Il verbo procrastinare invece ha la capacità stupenda (anche angosciante) di rappresentare questo spostamento precisamente al domani: pur eluso, resta calato nell’agenda immediata, nell’organizzazione imminente. Sposta qualcosa solo al futuro prossimo, non a un domani senza data, ma proprio a domani. Anche se i rinvii di un sol giorno finiscono (a volte in maniera inevitabile, nel provvisorio eterno) per sommarsi indefinitamente.
Così se dico che sto procrastinando una cosa da fare, non mostro un respiro ampio di agenda, compreso in ragioni ponderate, come farei se dicessi che sto rinviando una cosa da fare, o differendo. Questo spostamento a domani denuncia che non ho voglia di farla. Se procrastino un pagamento, non ho nemmeno la forza sfacciata di fissarlo ad altra data lontana, o di mollare l’idea di compierlo: semplicemente, non ce l’ho in agenda nel giorno corrente, domani sicuramente. E anche lo spadaccino Syrio Forel, mentore di Arya del Trono di Spade, spiega che la morte si può solo procrastinare, con la bella formula «Cosa diciamo al dio della morte? “Non oggi.”»
È una parola che ha un certo peso, avendo inscritte delle complesse dinamiche di evitamento, che pure sono rappresentate con una certa levità grazie al suo aspetto semplice e dotto insieme.
È una parola che vive nella nostra lingua da oltre sette secoli, ma è nella nostra società produttivista che ha preso il bel profilo di un demonio — a cui si addice un nome di ascendenza latina. Ma iniziamo dal principio, che è un principio di oblio.
Certe parole, lentamente, cessano di avere un domani — e può valere anche per le parole che significano ‘domani’.
Il latino aveva il cras, parola di origine misteriosa e però in uso universale, per dire ‘domani’ — e oggi lo troviamo solo in alcune continuazioni sarde (cras) e meridionali (crai). Infatti durante il medioevo ha prevalso ineluttabilmente la praticità del de mane, ‘al mattino’, da cui il nostro ‘domani’ stesso. Ma i recuperi dotti scavalcano le tendenze e le desuetudini secolari.
Il latino aveva il verbo procrastinare, un derivato di crastinus ‘del giorno seguente’ (ovviamente da cras ‘domani’), circostanziato dal prefisso pro-, che è un avanti nel tempo. Il risultato è un pianissimo ‘rimandare al giorno dopo’. E questo verbo viene recuperato, specie come ‘rimandare a un altro momento’. Ma qui c’è la sua specificità.
Il rimandare non ha orizzonte. Non ne implica subito uno nemmeno il differire, nemmeno il rinviare. Se rimando un impegno, non contemplo dentro a quel solo ‘rimandare’ un lasso di tempo in cui verrà recuperato. Se lo differisco, idem.
Il verbo procrastinare invece ha la capacità stupenda (anche angosciante) di rappresentare questo spostamento precisamente al domani: pur eluso, resta calato nell’agenda immediata, nell’organizzazione imminente. Sposta qualcosa solo al futuro prossimo, non a un domani senza data, ma proprio a domani. Anche se i rinvii di un sol giorno finiscono (a volte in maniera inevitabile, nel provvisorio eterno) per sommarsi indefinitamente.
Così se dico che sto procrastinando una cosa da fare, non mostro un respiro ampio di agenda, compreso in ragioni ponderate, come farei se dicessi che sto rinviando una cosa da fare, o differendo. Questo spostamento a domani denuncia che non ho voglia di farla. Se procrastino un pagamento, non ho nemmeno la forza sfacciata di fissarlo ad altra data lontana, o di mollare l’idea di compierlo: semplicemente, non ce l’ho in agenda nel giorno corrente, domani sicuramente. E anche lo spadaccino Syrio Forel, mentore di Arya del Trono di Spade, spiega che la morte si può solo procrastinare, con la bella formula «Cosa diciamo al dio della morte? “Non oggi.”»
È una parola che ha un certo peso, avendo inscritte delle complesse dinamiche di evitamento, che pure sono rappresentate con una certa levità grazie al suo aspetto semplice e dotto insieme.