Rappresentazione
rap-pre-sen-ta-zió-ne
Significato Raffigurazione di aspetti della realtà o di concetti; riproduzione, messinscena; processo conoscitivo con cui dei contenuti si presentano alla coscienza
Etimologia da rappresentato, modellato sul latino representatio, da repraesentare ‘mettere davanti agli occhi, rievocare, riprodurre’, derivato di praesens ‘presente’, con sostituzione del prefisso intensivo re- con ra(d)-.
Parola pubblicata il 29 Novembre 2022
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
«Il mondo è la mia rappresentazione»: con questa frase ad effetto si apre il capolavoro di Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819). Ma che significa? Che il mondo non esiste se non nella mia coscienza? No: per Schopenhauer una posizione del genere – il solipsismo – «non potrebbe incontrarsi che in un manicomio». Oppure il suo era un idealismo soggettivo alla Fichte? Neanche per idea: Fichte, che «fa dell’oggetto un effetto del soggetto», è «il padre della pseudofilosofia», di un sistema che con Hegel «è approdato a vera e propria ciarlataneria». O forse Schopenhauer era un seguace dell’idealismo trascendentale kantiano, per cui l’oggetto del conoscere è plasmato dalle nostre strutture cognitive? Stavolta ci siamo vicini, ma per capire bene dobbiamo fare qualche passo indietro.
‘Rappresentazione’ è modellato sul latino repraesentatio, a sua volta da repraesentare, ossia ‘mettere davanti agli occhi, riprodurre, raffigurare mediante immagini o simboli’. E questo fa la mente umana: così come uno spettacolo teatrale mette in scena la vita – o una statua ritrae una persona, e il personaggio di una favola un vizio umano – le nostre strutture cognitive riproducono la realtà, creano un’immagine delle cose. Ma chi ci assicura che si tratti di una rappresentazione fedele?
La posizione dominante nella filosofia occidentale, sin dalle origini, è stata quella di una corrispondenza, un’identità tra pensiero e realtà, soggetto e oggetto. Finché non è arrivato Cartesio, non a caso ritenuto l’iniziatore della filosofia moderna, con il suo dubbio iperbolico: non essendo le idee altro che contenuti mentali, potrebbe ben darsi che le nostre rappresentazioni «non siano che illusioni e inganni».
Cartesio risolse quel dubbio atroce solo ricorrendo alla garanzia divina: Dio, per sua natura buono, non può ingannarci facendoci percepire una realtà totalmente illusoria e falsa. Ma per chi non era disposto ad accettare questa fragile rassicurazione si apriva la strada all’empirismo e allo scetticismo, mettendo radicalmente in discussione la validità di ogni conoscenza umana: circa la sostanza reale delle cose, al di là delle nostre rappresentazioni, non sappiamo niente.
Kant, pur proclamandosi debitore degli empiristi, aveva cercato di salvare l’oggettività della conoscenza: ciò che conosciamo è sì filtrato dalle nostre strutture cognitive – e quindi soggettivo, mentre della realtà in sé (il noumeno) non sappiamo nulla – ma non è abusivo e illusorio, perché l’Io penso è una funzione unificatrice della conoscenza uguale per tutti, quindi valida intersoggettivamente. Agli idealisti tedeschi successori di Kant, comunque sia, bastò eliminare quel misterioso e importuno simulacro, il noumeno, per proclamare la riduzione dell’oggetto al soggetto e l’identità essenziale di spirito e realtà.
È da qui che parte Schopenhauer, rigettando le posizioni di Fichte, Schelling e Hegel in nome della radicale alterità di spirito e materia, e ripartendo dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, ma su un altro piano. Schopenhauer concorda con Kant sul fatto che gli umani conoscano solo ciò che le loro strutture cognitive sono in grado di cogliere, ma ritiene sbagliatissimo concepire il noumeno come un oggetto che sia causa dei fenomeni: «L’errore fondamentale di tutti i sistemi è il non riconoscere questa verità, che l’intelletto e la materia sono dei correlati, che esistono cioè solo l’uno per l’altro, mantenendosi e venendo meno insieme, essendo l’uno soltanto il riflesso dell’altro».
Il mondo come rappresentazione, quindi – quello in cui intelletto e materia, soggetto e oggetto si oppongono –, non è che una parte della realtà: quella apparente, illusoria, che rifacendosi alla filosofia indiana Schopenhauer chiama Maya.
La vera sostanza unica ed eterna delle cose, invece, di cui i fenomeni non sono che manifestazioni transeunti e molteplici, è la volontà (volontà di vivere): un impulso, un’energia insita non solo negli umani ma in ogni cosa. Così Schopenhauer sembra semplicemente ribadire l’assunto della metafisica classica – esiste un’unica, vera realtà, mentre la molteplicità dei fenomeni è pura apparenza – ma vi aggiunge un’affermazione inedita ed esplosiva: la sostanza, l’essenza delle cose (la volontà) non coincide col Bene supremo; anzi, è un male da cui liberarsi.
Come Leopardi, Schopenhauer ritiene che la volontà di vivere porti inevitabilmente alla sofferenza e all’infelicità, perché il desiderio è per natura infinito e quindi impossibile da soddisfare. L’unica via d’uscita, allora, è la nolontà, l’annullamento della volontà mediante l’ascetismo. Insomma: l’assoluto – la volontà – che si autosopprime.
Schopenhauer si veste da monaco buddista e tenta di non volere. (Midjourney)
Ma non c’è una soluzione meno tragica? Certo che sì, ed è lo stesso Schopenhauer a suggerircela: affidarci alla rappresentazione nella sua accezione più alta, quella artistica, in cui la realtà diventa simbolo, metafora, figura. Attingendo a questa dimensione gli umani si sottraggono alla tirannia della volontà, dei desideri e della sofferenza, perché nell’arte la vita si fa immagine, rappresentazione pura, piacere estetico disinteressato, e l’individuo «puro soggetto conoscente e limpido occhio del mondo». Certo, Schopenhauer avverte che si tratta di un sollievo temporaneo, non risolutivo. Ma bisogna sapersi accontentare; sempre meglio della nolontà, in ogni caso.